Le rivoluzioni nell’ex Urss che restano un’illusione

Non sempre rivoluzione significa democrazia. Certo non nella maggior parte dei quindici Paesi dell’ex Unione Sovietica. Di questi solo tre - Lituania, Estonia, Lettonia - oggi sono davvero liberi, addirittura membri dell’Unione Europea. Ma negli altri dodici il bilancio è sconfortante. Alcuni sono palesemente autoritari, come il Kazakistan, il Kirghizistan o il Turkmenistan, che però europei non sono e hanno cultura, storia e tradizioni lontane dalle nostre. Ma anche quelli a noi più vicini, come l’Ucraina, la Georgia, la Bielorussia e, a ben vedere, la stessa Russia, appaiono lontani dagli standard occidentali.
Le occasioni non sono certo mancate. Negli anni Novanta credemmo in Eltsin, che portò Mosca alla bancarotta. Nel 2000 Putin riuscì a riportare ordine e stabilità, ma ora che il suo Paese è diventato improvvisamente ricco, grazie al petrolio, al gas e alle materie prime, si comporta come gli zar che fallirono l’appuntamento con la modernità: accentra, prevarica, crea nuove caste privilegiate, a cominciare dalla sua, anziché diffondere il benessere e iniettare libertà e senso civico nella società.
Nel 2003 ci eravamo esaltati per la rivoluzione rosa in Georgia. Via Eduard Shevardnadze, il dinosauro sopravvissuto all’era sovietica, dentro Mikhail Saakashvili, il giovane avvocato che dopo aver studiato alla Columbia University di New York tornava a Tbilisi per dare speranza e benessere al suo popolo. Che emozione in quell’assalto al Parlamento nel nome della Giustizia. Ma ora ci accorgiamo che la Georgia è rimasta povera, corrotta e, come prima, ostaggio della malavita. Quella rivolta non è servita a molto.
E che dire dell’Ucraina? Nel 2004 vivemmo momenti memorabili: tutti incollati alla tv a fare il tifo per Viktor Yushcenko, l’eroe che guidava il popolo arancione contro Yanukovich, l’uomo dei russi, erede di un regime ingiusto e prevaricatore. C’erano tutti gli ingredienti di una grande storia: il capo, vivo per miracolo, con la faccia grigia e butterata da un misterioso avvelenamento alla diossina. Al suo fianco una pasionaria, Julia Timoshenko: bella, con i capelli a coda annodati sulla nuca come un’antica contadina, senza dubbio coraggiosa: per molti la Giovanna d’Arco di Kiev. Il bene da una parte, il male dall’altra. Il 23 gennaio 2005 il bene trionfò: Yushcenko divenne presidente, lei primo ministro.
Eppure oggi il Paese vive una crisi politica gravissima. La coalizione arancione non esiste più: Julia è in rotta con il suo ex compagno di battaglia, e la sua reputazione è incrinata dal coinvolgimento in affari milionari tutt’altro che trasparenti. Il redivivo Yanukovich è il premier di una coalizione eterogenea. Lui, Yushcenko, appare isolato, impopolare, tanto disperato da sciogliere il Parlamento violando, verosimilmente, la Costituzione.
La democrazia, in questa parte del mondo, funziona davvero male, talvolta non funziona affatto. E allora bisogna chiedersi perché. Era illusorio considerare Yushcenko e la Timoshenko dei riformatori, e per capacitarsene bastava dare un’occhiata ai loro curricula. Macché oppositori! Entrambi sono stati a lungo organici al regime dell’ex padre padrone comunista Kuchma, ampiamente ricompensati. Si sono convertiti al liberalismo filoccidentale per opportunismo e, inevitabilmente, senza rinnegare certe «tecniche» nella gestione del potere. Insomma, agli occhi del popolo non erano poi tanto diversi da Kuchma né da Yanukovich. D’altronde anche la soluzione georgiana si è rivelata fallace: non basta un solo uomo, davvero nuovo, per cambiare, se i suoi collaboratori sono gli stessi del predecessore.
Occorrevano gradualità nella costruzione di una società civile e tanta pazienza, quella che è mancata, innanzitutto all’Occidente. Oggi sappiamo che le rivoluzioni di Kiev e di Tbilisi non erano affatto spontanee, bensì provocate ad arte dagli esperti di comunicazione incaricati dalla Casa Bianca. Yushcenko, la Timoshenko e Saakashvili erano pedine di una strategia più ampia: controllare l’Eurasia (obiettivo che Washington persegue da dieci anni) sottraendo l’ex Urss all’influenza russa. Fu un’operazione sofisticata e coronata da successo, ma solo parziale, perché appena ottenuta la vittoria in questi due Stati cruciali, gli americani si sono dimostrati approssimativi nel gestire il dopo. Avevano promesso un nuovo piano Marshall di aiuti economici e sociali; arrivarono pochi milioni di dollari, con grande ritardo. E anziché allarmarsi ai primi segnali di sfaldamento della coalizione lasciarono fare, confidando nelle virtù taumaturgiche di Yushcenko e Saakashvili e dunque facilitando la rivincita di Putin che, dopo essersi fatto sorprendere per due volte, in due anni ha riconquistato gran parte dell’influenza perduta.
La democrazia oggi è sempre più impopolare nell’ex Urss, forse anche per motivi «genetici». L’esperienza dimostra che i Paesi europei che nel Novecento e nell’Ottocento hanno conosciuto periodi sufficientemente lunghi di democrazia, alla caduta del Muro di Berlino hanno riscoperto istantaneamente valori che si pensava annichiliti dalla dittatura comunista. È stato così per i tre Paesi Baltici, per la Polonia, l’Ungheria e la Cecoslovacchia, che pacificamente si è divisa in due Stati, Repubblica Ceca e Slovacchia. Potenza della memoria storica. Ma dal 1762 i russi, gli ucraini, i georgiani hanno conosciuto solo l’oppressione, se si esclude il caotico fermento indipendentista di Tbilisi e Kiev tra il 1917 e il 1920. Oppressione zarista prima, bolscevica poi.

Anche in questo caso la memoria storica ha funzionato, ma alla rovescia, perpetrando la rassegnazione dei popoli, il dispotismo delle élites. E lasciando, a noi occidentali, il rammarico di un’occasione sprecata.
Marcello Foa
marcello.foa@ilgiornale.it

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