"Il rugby e i podcast, ecco cosa mi aiuta a scrivere i miei noir"

È una delle voci più originali del thriller italiano. Che racconta di una strana "unità investigativa"

"Il rugby e i podcast, ecco cosa mi aiuta a scrivere i miei noir"

Sono bastati due soli noir per imporre Gian Andrea Cerone, savonese classe 1964, milanese d'adozione, come una delle voci più singolari del catalogo Guanda Noir, e lui stesso spiega il suo progetto letterario in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo, Il trattamento del silenzio (Guanda): «Con il mio libro di debutto, Le notti senza sonno, desideravo impostare una serie di romanzi che si potessero leggere singolarmente ma che, in qualche modo, fossero legati nel loro sviluppo complessivo. Per farlo mi servivano tre cose. Uno scenario geografico ben preciso, ovvero la Milano attuale. Un alveo narrativo ampio, che ricordasse in modo innovativo il romanzo d'appendice, per poter dare profondità e spessore umano ai miei personaggi. E infine il racconto del male in tutte le sue principali forme. Da quello della psicopatia generata dalle sofferenze subite durante l'infanzia, a quello industriale della criminalità organizzata, fino al più meschino di tutti, quello che matura nel seno delle famiglie e che si nutre di rancore, invidia e avidità».

Come ha scelto il titolo del suo secondo noir?

«Come spesso accade il titolo è un'illuminazione. Senza rivelare troppo, posso dire che Il trattamento del silenzio è una vera e propria forma di violenza psicologica, peraltro praticata sin dai tempi antichi, che prevede il rifiuto da parte di una persona di comunicare verbalmente o con altri mezzi. Forse la più basilare e crudele negazione che si possa infliggere a qualcuno. L'esempio più semplice è il silenzio reiterato dopo una lite tra marito e moglie. Se lo si protrae nel tempo, soprattutto in condizioni di costrizione di un soggetto, può diventare micidiale e generare stati depressivi profondi. Ecco, Il trattamento del silenzio è un segreto familiare nascosto nel cuore del romanzo e seppellito dal tempo, da cui prende vita una tremenda vendetta. Un esplicito omaggio, travestito da noir, a Dumas e al suo Il Conte di Montecristo. La citazione di Benjamin Franklin in esergo - Tre persone possono tenere un segreto, se due di loro sono morte - è quasi un indizio per un lettore attento».

Ma esiste davvero l'Unità di Analisi del Crimine Violento di cui Lei parla?

«Certamente. L'UACV è un'unità che dipende dalla Scientifica e la sua direzione centrale è a Roma. Ma siccome la caccia ai criminali più violenti necessita di un complesso lavoro di squadra che unisce i più moderni metodi scientifici alle pratiche più tradizionali, presso le questure più importanti come quella di Milano ci sono delle unità investigative dedicate che si muovono sul campo e conducono le indagini sotto il cappello dell'UACV. Sono donne e uomini dalle vite normali che, per ragioni professionali, spesso sono costrette a superare i confini dell'inferno».

Come ha scelto i personaggi della sua squadra, così originale?

«Il commissario Mario Mandelli e il suo alter ego, l'ispettore Antonio Casalegno, sono antitetici ma complementari. Posato e sposato, il primo. Esuberante e donnaiolo il secondo. Ma insieme formano un formidabile investigatore ideale. Diciamo che compensano reciprocamente i loro difetti e fragilità, che sono molti. I membri della squadra sono differenziati per provenienza geografica e caratteristiche personali. Milano prima di essere una città multietnica è una multi Italia, dove i gruppi di lavoro sono eterogenei per natura. Mi interessava evidenziare questo aspetto. Ciascuno di loro porta la sua specificità, anche dialettale. Le donne sono i veri motori dei romanzi. La moglie di Mandelli, Marisa detta Isa, è una pragmatica bergamasca sempre al comando delle operazioni famigliari. Così come Marica Ambrosio, una ex lanciatrice di giavellotto romagnola che si sta trasformando in una super poliziotta».

Il mondo dei collezionisti d'arte e quello dell'Università si intrecciano nella sua storia...

«Nei miei romanzi ci sono sempre molti riferimenti all'arte, alla musica e al collezionismo. Il Trattamento del Silenzio si muove proprio intorno alla scomparsa di un libro misterioso, una cinquecentina, il cui titolo e autore sono assolutamente reali e al cui destino è legata la risoluzione del caso principale. L'università invece è una trappola che ho teso al povero Mandelli, che all'inizio del romanzo si ritrova studente cinquantenne in mezzo ai giovani colleghi. Un capodoglio alla mercé di un branco di orche assassine».

Da anni si occupa di podcast e di quelli di Storielibere in particolare: quanto sono diventati una dimensione narrativa avvincente?

«I podcast sono un'alternativa al libro e all'audiolibro, un medium speciale. Necessitano di una precisa strutturazione narrativa, molto più simile alla sceneggiatura di una serie televisiva che alla radio. Le storie devono essere originali, create appositamente, e divise in episodi senza perdere di vista l'efficacia complessiva. Non credo abbiano influenzato il mio stile, semmai mi hanno insegnato a organizzare un flusso narrativo».

Per anni ha giocato a rugby cosa le ha insegnato?

«Tantissimo.

Innanzitutto a fare squadra ma anche a contare sulle proprie forze, se non sei ben preparato diventi una zavorra per tutti, oltre che per te stesso. Il rugby è uno sport leale ma spietato, dove nessuno ti regala nulla. E questo aiuta a imparare dalle sconfitte. E poi mi ha lasciato gli amici più sinceri, quelli che ci saranno sempre».

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