Sam, lo sminatore che gioca d’azzardo

da Garmshir (Afghanistn meridionale)

Apri gli occhi, la tenda è un teatro d’ombre cinesi nell’azzurrognolo degli illuminanti. Sam s’infila camicia, David armeggia con il computer, Duong ravana nella sacca dei medicinali. Mezzanotte passata, la notizia è ancora lì, alla porta. La «squadra bombe» è già in movimento. Sono sminatori come i tre soldati italiani feriti ieri vicino a Kabul mentre andavano a compiere un’azione di bonifica di esplosivi. Da un lembo della tenda una voce snocciola informazioni: «A est della cowboy road sulla direttrice sud...».
Il sergente maggiore Lauro Alehandro Samaniego afferra il giubbotto antiproiettile, frulla dati e annotazioni. Lo chiamano semplicemente Sam. Ha 30 anni, alto, dinoccolato con una cantilena messicana e un fiato d’accento texano. Non regala parole. Le soppesa lento. Guarda l’orologio. Fuori è buio pesto. La base dei marine di Apache South, nella provincia di Helmand, Afghanistan del sud, è un fatuo mortorio d’illuminanti chimici. Ci sono solo loro svegli, i pazzi della Iod, la squadra degli uomini bomba. La voce dalla fessura è un jukebox d’informazioni. Sam, di tanto in tanto, c’infila una monetina. «L’abbiamo trovata noi o ce l’hanno detto? Quanti chilometri? Quanti civili attorno? Cosa si vede sulla strada?». Sam ringrazia, rimugina immobile, dice solo: «Facciamo attenzione». È la seconda Ied (Improvised Explosive device), la seconda trappola esplosiva in due giorni, i talebani li mettono alla prova. Come quella volta in Irak, due anni fa. «A un chilometro dalla Ied prendo una scorciatoia: non mi fido. Ricordo solo il blu del cielo, un sogno luminoso in cui prima volo e poi precipito nell’oscurità. Quando mi risveglio l’urlo del mio vice mi esplode nelle orecchie: “Aiuto, Sam è morto”. Qualcuno mi tira le palpebre. Me li vedo attorno, nel veicolo, a testa in giù. Grido ok ok, sono qui. Voi state bene? Mi guardano come un fantasma. “Capo - dice il mio vice - il tuo cuore non batteva da 45 secondi”. Mi rimetto in piedi, li porto a finire lo sminamento. Finisco e svengo, mi risveglio all’ospedale una settimana dopo. Sul referto scrivono danno cerebrale “sconosciuto e irreversibile”. Da allora una volta al mese il mio cervello si ricorda la frullata e sputa sensazioni a caso, corro al gabinetto e non succede niente, finisco di mangiare e muoio di fame. Potrei congedarmi, mollare tutto, incassare danni e liquidazione tornare in Texas da moglie e figlie. Mi chiedono di restare. In una guerra in cui tutti uccidono sono uno dei pochi in grado di salvare vite e così ogni volta resto».
Sono passati tre minuti dalla sveglia Sam è pronto alla nuova battaglia. Lui e i suoi tre uomini sono già nella pancia del bestione da 22 tonnellate, Mrap. Ha un fondo a V super corazzato, ruote alte un metro, tre centimetri di pannelli d’acciaio infusolati intorno agli otto metri di lunghezza. Dentro la sua capsula blindata tra robot a cingoli telecomandati, apparecchiature elettroniche, detonatori, pinze ed esplosivi s’agita una cucchiaiata di melting pot americano. Sam è figlio d’immigrati messicani. Il suo vice David Wheeloen, 29 anni, ebreo, ha lasciato la famiglia a Mannheim in Germania per stabilirsi nel Sud Carolina. Il sergente Anthony Pricer è figlio d’un americano e una filippina. Il Mrap s’affida alle coordinate radio della base. Più avanti per i giornalisti è già finita. «Non è posto per voi», sentenzia un ufficiale. Trenta minuti dopo l’esplosione controllata.
David ritorna. Ha i resti del nemico tra le mani: due piastre d’acciaio attaccate ai due poli di una batteria da 12 volt. In mezzo sei millimetri di polistirolo e puntine da disegno metalliche. «Quando ci passi sopra le due piastre schiacciano il polistirolo le puntine toccano il metallo, fanno contatto e attivano il detonatore. Era attaccato a tre mine anticarro russe; quando le abbiamo fatte saltare hanno fatto un buco di due metri ». Sam spiega che «saranno trenta dollari con la batteria e tre residuati degli arsenali sovietici», contro milioni di dollari di armi e veicoli americani. «Significa che in questa partita giochiamo uno a duecentomila. Neppure il più folle giocatore d’azzardo ci vorrebbe entrare». Ma lui è il primo a giocare tutto ogni notte. «È una partita tra me e loro, lo faccio con le mie mani, ogni volta. Solo, così mi sento sicuro, mi sembra di vincere.

Poi inserisco l’innesco e lascio tutto a loro. Io m’infilo le cuffie, sparo la musica a tutto volume, l’ascolto salire, esplodere, mi lascio andare agito le mani, muovo i piedi, scuoto la testa, ho sconfitto la morte, ballo per la vita».

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