Scalfari, Zarathustra da salotto

La storia italiana del Dopoguerra ha avuto due grandi giornalisti, per alcuni versi assai simili tra loro, per altri versi distantissimi: Indro Montanelli ed Eugenio Scalfari.
Distanti ideologicamente, distanti per formazione professionale e nel modo di concepire il mestiere di giornalista, distanti nel modo di fondare giornali, ma così profondamente simili se si guarda alla quantità di storia, alla quantità di Italia, che le loro figure - ambedue alte e scultoree (giacomettiano l’uno, più rodiniano l’altro) - incarnano, e alle domande che, giorno per giorno, questi due personaggi hanno posto a noi tutti, politici, operatori economici, uomini di cultura o semplici cittadini.
Parlare di Eugenio Scalfari, che titola il suo ultimo libro con una celebre citazione nietzschiana, L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, pagg. 150, euro 16,50), significa parlare di una parte importante - di più: del canone (prendo in prestito il termine dalle storie letterarie) - di questo Paese. Un filo che lega la storia italiana da Cavour a Garibaldi al fascismo alla resistenza di parte azionista, e poi al Gattopardo, e alla nascita di un quotidiano dal nome emblematico: La Repubblica.
La forma della scrittura è autobiografica, e dell’autobiografia l’autore sceglie la versione meno compromettente, quella dell’ordine cronologico, che include una lunga meditazione finale sulla vecchiaia e sulla morte. Personalmente, diffido degli ordini cronologici, nei quali spesso si insinua la tentazione di risolvere un’inquietudine profonda attraverso un ordine fittizio, imposto dall’esterno: orologio, calendario, ombra della meridiana.
Ombra, già. L’oggetto del libro è, infatti, davvero autobiografico? No. Così come non lo è la morte, che ricorre, sì, come personaggio, praticamente in tutto il libro, ma solo nella veste di dispensatrice di domande, di (troppo) quieta comprimaria.
Il centro del libro è piuttosto quell’ombra, l’ombra dell’io, la stessa - credo - di Montale, e che l’uomo che se ne va sicuro stampa senza avvedersene contro uno scalcinato muro. Con questa ombra da molti anni Eugenio Scalfari continua a fare i conti, con libri e lunghi articoli nei quali mette a repentaglio persino il proprio talento di scrittore, accettando ripetizioni, giri a vuoto, e non smettendo mai di affermare e riaffermare le stesse cose: quasi che le sue sentenze, scritte su fogli adesivi, trovassero poi solo superfici bagnate, e dovessero perciò essere riscritte da capo.
Ogni scrittore sa che una cosa, quando è detta davvero, è detta per sempre, e che il ri-dire è solo l’abito di qualcosa che continua a restare non-detta.
Il non detto di Scalfari ha un nome preciso, intorno al quale, si voglia o no, ruota tutta la tematica dell’io. Il nome compare nel titolo, e lo fa in forma di citazione: l’«uomo che non credeva in Dio» altri non è, infatti, che il protagonista dello Zarathustra di Nietzsche, che, giunto in un mercato, sente qualcuno annunciare la morte di Dio. Di quest’uomo Scalfari ci offre un ritratto in tono minore, lontano dallo scandalo nicciano: il ritratto di un uomo addolorato dalla notizia di quella morte perché sa che Dio è il senso, e che «gli uomini hanno bisogno del senso come dell’aria, dell’acqua, del fuoco».
«Dio muore» chiude Scalfari in una delle tante sentenze capitali del libro «nel momento in cui scopriamo d’averlo inventato per sfuggire la paura».
E qui verrebbe da dire: bum.
Ma non è il caso di discutere, qui, sulla natura della religiosità umana. Meglio rimanere sul concreto e osservare, a esempio, la scarsa conoscenza - nonostante le ripetute citazioni agostiniane - che Scalfari dimostra della natura del cristianesimo e specialmente del cattolicesimo: una conoscenza da manuale di storia liceale (la fede come fuga dal mondo, la separazione corpo-anima ecc.) che Scalfari non ha approfondito perché, forse, non gl’interessava farlo.
Ma su questo disinteresse di fondo, su questa accettazione di luoghi comuni (che c’è, pari pari, anche da parte cattolica nei riguardi del cosiddetto mondo laico) vorrei fare due osservazioni.
La prima. Scalfari è il rappresentante di un’Italia - quella che si è costituita contro il Papa e i cattolici - che si è sempre pensata in termini di élite, di salotti. Il suo giornale, nato dall’esigenza di rinnovamento interno di quella classe contro un nemico bifronte, ci ha insegnato che il potere si produce in luoghi non sempre giurisdizionali.
Illuminista di stampo radicale, Scalfari non rinnega una virgola della propria storia: da persona di grande intelligenza, trattiene le epoche che ha attraversato, compresa quella fascista. Del fascismo non fa un ritratto orrorifico, ne sottolinea la modernità. Mi pare di capire che legge l’Italia di oggi nel segno di una continuità con quell’epoca, più che di una discontinuità. La sciocca espressione «parentesi fascista» in lui non c’è mai.
La chiave di lettura che il suo giornale - sua vera partenogenesi - ha offerto al Paese si è rivelata più efficace nella comprensione di certi fatti, meno di certi altri: migliore sul fenomeno terrorista - in primis brigatista -, più debole su quelle realtà che implicavano appartenenze popolari: i cattolici, ma anche i comunisti. Anche all’interno di questi mondi, il suo giornale ha sempre privilegiato la componente elitaria, intellettuale.
La seconda osservazione. Il libro si svolge tutto nel segno della solitudine: starei per dire di un certo solipsismo. Scalfari si pensa sempre da solo, anche la sua infanzia è un’infanzia solitaria, e la sua gioventù sanremese, benché allietata da diverse amicizie, arriva alla pagina come un concerto per voce sola, il corpo di quei compagni non si tocca mai.
E qui varrebbe la pena, in altra occasione, di riprendere il filo tematico dell’io, così caro a Scalfari come a chi scrive, introducendo, tra «io», «sé» e «super-io», un’altra parola fondamentale, la parola «tu». La tradizione giudaica, rifluita nel cristianesimo, presenta la nascita dell’io, della coscienza di sé e dell’universo, nella forma di una vocazione, ossia di una chiamata: «Abramo!». «Eccomi». È l’opposto della roccaforte cartesiana.
Chiuso il libro, nonostante le rassicurazioni finali dell’autore, resta l’impressione non solo di una vita incompiuta (ogni vita umana è incompiuta) ma di una storia incompiuta, di un Paese incompiuto, fatto di pezzi che non si vogliono conoscere, e che perciò fanno fatica a rispettarsi.
Eppure l’Italia è ben più di questo.

Ma la sua grandezza, la sua originalità, il suo genio sono stati posposti all’eterna lamentela su quello che non va. L’Italia di Scalfari, divenuta poi vulgata, è sempre e comunque un’Italietta. E questo, al di là di tutto, mi pare la sua debolezza: quella di non averci fatto amare il Paese in cui viviamo.

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