Scende in campo l’armata che "vota" per Tremonti

Elettori e alleati non perdonano al ministro dell’Economia la politica lacrime e sangue. Ma negli ultimi tempi i poteri forti stanno con lui

Scende in campo l’armata  
che "vota" per Tremonti

Da Giulio a Giuliano, da poco amato a un poco Amato. Il destino di Tremonti è tutto qui, in un parallelo pericoloso che rischia di avvicinarlo sempre più all’ex presidente socialista, suo compagno di Aspen: tutti e due colti, tutti e due rigorosi, tutti e due impegnati a salvare i bilanci pubblici, tutti e due capaci di conquistare montagne di consensi, si capisce, ma solo nei salotti buoni. Fuori no. Fuori sono un po’ antipatici. E l’antipatia, si sa, è indispensabile per il governo dell’economia, ma rende impossibile il governo del Paese. Per il quale, fino a quando la democrazia non verrà delegata al convegno Aspen o al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, ci vogliono banali e simpaticissimi voti.
Tremonti, si sa, di voti ne ha pochetti. Voti reali, s’intende, di quelli che si contano e non si pesano. Per carità: al convegno Aspen o al Workshop Ambrosetti otterrebbe quasi un plebiscito. Anche alla riunione di Moody’s o nella giunta di Confindustria, persino all’Ecofin, con cui pure ha avuto in passato celebri corpo a corpo: lì non avrebbe difficoltà a vincere le primarie e anche le secondarie. Lo eleggerebbero subito leader, capo, presidente, forse pure Papa: in fondo Giulietto ha buoni rapporti anche con Sua Santità, da quando i due hanno preso a discutere di etica e economia, Caritas e Veritas. Ma nelle urne, quelle vere? Quanti voti potrebbe prendere? Finora si diceva che il suo serbatoio era la Lega. Ma l’altro giorno a Pontida, sul pratone del giuramento, i padani hanno praticato il doloroso strappo: liquidato Tremonti, hanno scelto come possibile leader in pectore Maroni, cui hanno dedicato striscioni formato maxi e ovazioni. Così va il Carroccio: il ministro dell’Economia vola ormai troppo alto per piacere ai fedelissimi della Val Brembana.
E dunque se Stalin si chiedeva «quante divisioni ha il Papa», vale la pena chiedersi ora, dopo lo strappo di Pontida, quante divisioni abbia Tremonti. Sicuramente di tutti i ministri è il più credibile a livello internazionale: l’aver gestito bene la crisi economica, senza mettere in pericolo le barcollanti casse italiane, gli ha fatto guadagnare punti fra i poteri forti planetari. E questo è un elemento di forza, un’arma importante nelle sue mani, anche se per poter diventare un vero leader non basta sapersi conquistare la fiducia dei mercati finanziari. Bisogna conquistare anche quella dei mercati rionali.
Ecco, sui mercati rionali, a dirla tutta, Giulietto faticherebbe un po’. Vola troppo alto, ormai, per piacere ai fedelissimi della Val Brembana e anche alla sciura Maria: al massimo piace alla sciura Emma, quella che sta in Confindustria, e non perde occasione per elogiare il ministro dell’Economia. Ci avete fatto caso? Bossi a Pontida punzecchia Tremonti e la Marcegaglia, zac, subito si schiera al suo fianco. Anche Montezemolo tifa per lui, e il gotha degli industriali pure, tanto che qualcuno parla di ipotesi di «Confgoverno». Diego Della Valle, per dire, ha regalato al ministro il suo personale pagellino con un «buono» pieno. A conti fatti, se si votasse in viale dell’Astronomia, Giulio farebbe vedere le stelle a tutti. Un po’ più difficile invece riuscire a ottenere lo stesso consenso dalla sciura Maria, anche perché lei, per la verità, con tutti ’ste lacrime e sangue, le stelle le vede già da un pezzo.
Fateci caso, da qualche tempo Tremonti è diventato il paladino di tutti i poteri forti: Confindustria, i circoli economici, la finanza internazionale. Se i suoi compagni di governo lo mettono sotto pressione chiedendo la riduzione delle tasse, Moody’s interviene: «A rischio il rating». Se Berlusconi e Bossi trovano l’intesa per dare il via libera alla riforma del fisco, gli industriali fanno sapere: «La priorità va ai conti pubblici». «Ma quanti amici in Vaticano», titola l’Espresso citando i banchieri Ettore Gotti Tedeschi e Giuseppe Profiti, monsignor Ravasi e il cardinale Scola, oltre che il «feeling culturale» tra Giulio e Benedetto XVI. E non è un caso se da qualche tempo tutti i politici più gettonati fra i poteri forti, da Pierfurby Casini a Enrico Letta, hanno cominciato a usare toni concilianti con il ministro che pure, nel recente passato, veniva additato come causa di tutti i mali del Paese. «Il Pd non appoggerebbe mai un governo Maroni», dice per esempio il giovane Letta in un’intervista alla Stampa dove (tremontianamente) bolla la riduzione delle tasse come un’«illusione» e (tremontianamente) paventa il «rischio Grecia».
Del resto come stupirsi? Enrico è, con John Elkann e Paolo Savona, uno dei vice di Tremonti all’Aspen Institute, associazione assolutamente bipartisan che mette insieme il meglio dell’intelligenza e dell’economia italiana, da Umberto Eco a Gianni Letta, da Cesare Romiti a Giuliano Urbani, da Lucia Annunziata a Mario Monti, fino ad arrivare ad Amato, per l’appunto, un altro che ha sempre trovato più consensi nei salotti buoni che fra la brava gente.

Ma se Giulio fosse mai colto dalla tentazione di trasformarsi in Giuliano, ebbene, gli basterebbe guardarsi alle spalle per capire che di Dottor Sottile ne abbiamo avuto abbastanza di uno. E che a essere troppo sottili non va bene: in democrazia vince sempre chi si gonfia un po’. Di voti, se non altro.

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