Quella sciarada in dialetto. Le radici di Monsù Bergoglio

Le origini astigiane, la chiesa di Torino cara a nonni e genitori. E le battute in privato

Quella sciarada in dialetto. Le radici di Monsù Bergoglio
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Se qualche giornalista piemontese di passaggio a Buenos Aires, quando Papa Francesco era ancora il cardinale arcivescovo Jorge Mario Bergoglio, provava a carpirgli notizie in anteprima sul gossip vaticano, lui sorrideva e lo congedava allargando le braccia. «Salütme Türin», salutami Torino. Due parole cortesi ma sbrigative per chiudere un discorso non gradito.

Papa Francesco si era sempre sentito più piemontese che italiano, in virtù del legame di ferro di nonni e genitori, originari di Portacomaro, nell'Astigiano. Chi ammira a Torino la centralissima chiesa barocca di Santa Teresa, a un passo da piazza San Carlo, poteva perdersi fino a poco tempo fa nella lettura di un totem illustrato che rievoca la visita del Pontefice nella città degli avi nel 2014. Bergoglio pregò da solo, firmò i registri della parrocchia e si commosse nel ritrovare la fonte dove fu battezzato il padre Mario nel 1908. I nonni, Giovanni Bergoglio e Rosa Vassallo, si erano sposati lì l'anno prima. Non avevano dovuto percorrere molta strada: abitavano di fronte, al civico numero 12, a lato dell'ex teatro-cabaret di Macario.

Papa Bergoglio, espressione forte del gesuitismo sudamericano, aveva comunque conservato l'impronta dell'emigrante piemontese anche se nato a Buenos Aires. Per lui l'Italia è stata più la terra dei numerosi parenti (oltre una trentina) che la sede della Curia romana dove è sempre stato un alieno. A Torino e nell'Astigiano il suo cognome è diffusissimo. Tanto che fino all'elezione al soglio pontificio, il Bergoglio più conosciuto sotto la Mole era un rinomato macellaio.

Ricordiamo i primi discorsi quasi impacciati di Papa Francesco nella lingua italiana. La lamentella e altre parole storpiate dall'inconfondibile cadenza argentina. A casa Bergoglio, raccontava lui stesso nelle udienze private, si parlava in spagnolo e piemontese, idioma che ha sempre maneggiato con disinvoltura. Durante un evento ristretto in Vaticano, un pubblicista pedante gli ficcò in mano un librone dal peso spropositato. E lui, tra il divertito e lo spazientito, sciorinò di getto una sciarada incomprensibile ai più. «Ai venta düi ann e ses meis par lese tüta 'sa roba chi», occorrono due anni e sei mesi per leggere tutta questa roba.

In molti atteggiamenti pubblici il Pontefice ha sfoggiato la sua piemontesità innata senza renderla caricaturale. Appena eletto successore di Benedetto XVI si occupò personalmente di regolare pagamenti in sospeso come il soggiorno da cardinale al residence Santa Marta o i giornali acquistati dall'edicolante di fiducia a Buenos Aires. Tempo dopo si presentò a sorpresa nel negozio di un ottico romano per fare riparare le stanghette degli occhiali che stortava abitualmente nel riporle nelle tasche dell'abito talare. «Non vorrei spendere molto...» aveva mormorato quasi giustificandosi. Nelle rare visite a Torino dalla cugina aveva evitato i ristoranti chic della collina a favore delle piole tipiche.

Anche fisicamente Jorge Mario Bergoglio incarnava la tipologia fisica del piemontese robusto dal viso un po' smunto e lo sguardo reso penetrante dagli occhi scuri puntiformi. Un archetipo fisiognomico ancora oggi largamente diffuso nelle terre degli antenati. Ma tutto questo non basta, è solo colore. Sarebbe provinciale e inesatto annoverarlo come un Papa local solo per il suono del nome e le sue radici.

Cerea ne, monsù Bergoglio.

Un commiato asciutto e non retorico. Chissà come avrebbe risposto. Forse con lo stesso silenzio bonario con cui gelò l'emozionato giornalista «conterraneo» che gli fece gli auguri di compleanno il giorno prima che li compisse.

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