La vigilia dell’andata in scena del dittico Cavalleria e Pagliacci al Teatro alla Scala, funestato da uno sciopero, cade in un momento di seria difficoltà per il mondo del lavoro. Prima di entrare nel tema dell’intervista dobbiamo dichiarare la nostra disapprovazione per una decisione che non solo colpisce il pubblico privilegiato delle prime (oltre che le casse del datore di lavoro) ma offende, dentro la Scala, i consapevoli colleghi che non hanno aderito e fuori quanti non si occupano del dessert, perché sono privi dell’indispensabile pagnotta. Incredibile. E ora parliamo dell’incontro con il regista Mario Martone che a noi è apparso non certo favorevole alla piega presa dagli eventi... Il suo ultimo film Noi credevamo ha una colonna sonora basata su motivi verdiani, belliniani, rossiniani.
Ha ragione chi sostiene che l’opera è morta?
«Io ho un rapporto vivo con l’opera. Non posso definirmi un appassionato, ma sono un frequentatore. Mi piace scoprire le opere su cui lavoro e coinvolgere lo spettatore. Amo Verdi, ma dopo aver lavorato a Pesaro su Matilde di Shabran e Torvaldo e Dorliska, sono innamorato anche di tutto Rossini».
Per vitalizzare il melodramma occorrono ripensamenti drastici?
«Seguo con scrupolo il libretto. Se lo sento necessario compio uno spostamento del tempo dell’azione, come nel Ballo in maschera di Verdi, portato nell’Ottocento, perché mi interessava immetterlo nella Boston al tempo di Verdi, della Guerra di Secessione americana».
Le sue prime esperienze in campo operistico risalgono agli anni Ottanta (Oedipus Rex a Gibellina), poi Mozart.
«Così fan tutte ha cambiato molto il mio rapporto con l’opera da un punto di vista teatrale. Ho imparato a misurarmi con l’enorme boccascena del San Carlo di Napoli, portando i cantanti in avanti, quasi in orchestra. Poi ripresi l’opera a Ferrara con Claudio Abbado, ristudiandola quasi da capo. Sono esperienze che mi hanno aperto gli occhi sulle possibilità teatrali che l’opera contiene».
Dopo Lulu di Berg, tratta da un famoso testo teatrale di Frank Wedekind, Antonio Pappano l’ha chiamata per allestire Un Ballo in maschera di Verdi al Covent Garden di Londra.
«Nel frattempo ho completato la trilogia Mozart-Da Ponte al San Carlo e affrontato altri titoli verdiani: Falstaff a Parigi e Otello a Tokyo. Il lavoro di tessitura drammaturgica di Arrigo Boito per Falstaff è un capolavoro che mi ha sorpreso. Insieme alle Nozze di Figaro sono le opere perfette. Mi sono sorpreso a constatare che Falstaff, Cavalleria e Pagliacci sono opere coeve. Solo che sento nel Verdi di Falstaff l’uomo che è rimasto deluso dal Risorgimento. Quella malinconia che circola nell’opera è segno di un cambiamento d’epoca. La Windsor di Mastro Ford è la società nuova, cinica. Il Cavalier Falstaff è un dandy ormai alcolizzato, invecchiato ma vive in un mondo romantico, raffinato, diverso. Lì sento che Verdi aveva avuto un’altra idea dell’Italia, perché preferisce tirarsi fuori dal suo tempo».
Falstaff si può considerare la prima opera del Novecento.
«Sì, e la società in cui Verdi non si ritrovava più era la stessa in cui si trionfavano Cavalleria e Pagliacci, opere di compositori giovani, capaci di momenti fortissimi che sono andati ben al di là delle mie aspettative, e che incarnano lo spirito del tempo, quanto Verdi se ne distaccava».
Cavalleria?
«È un’opera compatta. I personaggi sono segnati da un Destino inesorabile che li avvicina alla tragedia greca. Infatti, ha un aspetto centrale il coro che rappresenta la società alle cui regole tutti si devono adeguare, tranne Santuzza che si ribella. Ho pensato ad essenzializzare, a levare ogni elemento di folclore, la scena sarà quasi un palcoscenico nudo con alcuni “elementi scenici”, per vincolare lo spettatore ancora di più all’azione drammatica e musicale».
Pagliacci?
«Sono più complessi. È un opera più ambigua, che sguscia in varie direzioni. I personaggi si possono leggere da angolature diverse. C’è il discorso del teatro nel teatro, il manifesto del verismo esplicitato direttamente nel Prologo. Volevo tener conto di quanto era passato dalla prima a oggi (Pirandello, ecc.), mantenendo l’impatto scandaloso che ebbero a suo tempo Pagliacci. Ho pensato ad un campo nomadi, dove i pagliacci sono artisti ambulanti, di strada. Riproporre il paesino di centovent’anni fa mi sembrava contraddire il manifesto verista proclamato nel Prologo, che spinge verso il presente».
Zeffirelli ha ambientato la sua ultima versione di Pagliacci oggi. Sostiene che il tempo dei Pagliacci è sempre: ieri, oggi e domani.
«Non mi interessa lanciare proclami ma solo mostrare una realtà: il conflitto fra i nomadi e una comunità, fra Silvio che si insinua e chiede a Nedda di uscirne. Un aspetto che ho sentito anche durante le prove, è la tensione costante, la fibrillazione fra realtà e finzione.
Queste le premesse. Si capisce che i conti si fanno con l’oste, che nel nostro caso è l’esito dello spettacolo.
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