Alla scoperta di Lodi, lo scultore della Borsa

Elena Pontiggia

Una mostra interessante, aperta fino al 30 novembre a Palazzo Isimbardi, ricorda, o per meglio dire fa conoscere per la prima volta in modo esauriente, Leone Lodi (1900-1974), scultore attivo a Milano, a Cremona e a Bergamo negli anni fra le due guerre, vicino al Novecento Italiano, amico e collaboratore di Sironi. Si tratta di una vera scoperta: non perché l'artista fosse ignoto almeno agli specialisti, ma perché si aveva di lui un'immagine parziale. Molti per esempio hanno presente, pur senza sapere chi sia l'autore, le sue grandi decorazioni per la Torre dei Venti, l'enorme costruzione esagonale rossa che si incontra sull'autostrada passando per Bergamo: una di quelle opere che sembrano fatte apposta per accreditare l'idea di un'arte di regime retorica fino al grottesco. In qualche rassegna generale, poi, si erano viste sue sculture, ma non fra le migliori: opere piuttosto dure e declamatorie, condotte sulla scia di Bourdelle e Mestrovic.
Lodi invece ha fatto molto altro. Lo dimostrano i rilievi per il Palazzo della Borsa in piazza Affari del 1930-31; le varie sculture realizzate per la Triennale del 1933; o, ancora, quelle esposte all'Esposizione Internazionale di Parigi del 1937: opere più introverse e, forse proprio per questo, di maggior valore. Grazie a Nicoletta Colombo, curatrice della mostra, ora disponiamo di un'approfondita monografia sull'artista, e le sorprese non mancano. Il lavoro di Lodi si muove nell'ambito di un novecentismo non privo di una sottile liricità, come dimostra l'opera centrale della rassegna, Il dono, un grande alabastro del 1933. Qui un giovane cinto di alloro incorona una donna altrettanto giovane. Il significato della stele è allegorico: la gloria incorona l'Italia, o qualcosa del genere. Ma quello che si vede, in realtà, al di là dei rimandi simbolici e della nobiltà del materiale, sono due ragazzi che si guardano e stanno per abbracciarsi, come una coppia di innamorati adolescenti. Leone Lodi nasce a Soresina (Cremona) nel 1900 da una famiglia di artigiani marmisti. A quattordici anni viene a Milano a cercare lavoro: fa lo scalpellino, e nei mesi meno rigidi dorme all'aperto per risparmiare sulle magre entrate. Nel 1917, raggiunta l'età di combattere, è richiamato alle armi. Rientrato a Milano nel 1919, frequenta l'Accademia di Brera; poi si avvicina al «Novecento», conosce Sironi e Agnoldomenico Pica. Di quest'ultimo, anzi, esegue un ritratto (dove «non c'è niente di meschino, ma tutto di vero, di nobile, di grandioso» lo ringrazia commosso Pica), e con lui partecipa al concorso per un monumento in piazza Grandi. Non vince, ma il progetto è apprezzato da Persico, il critico più lucido dell'ambiente milanese dell'epoca.

Da allora la sua ricerca continua per quasi mezzo secolo: con esiti spesso notevoli, che meritano di essere conosciuti.
«Dal Novecento all’arte monumentale»

a Palazzo Isimbardi, corso Monforte 35, ingresso libero, fino al 30 novembre

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