Se il caso Murgia rivela cos'è la cultura italiana

Opere "contingenti" come estensione della lotta politica e infinito scambio di favori

Se il caso Murgia rivela cos'è la cultura italiana

«Dopo aver parlato della mia malattia, i miei nemici mi rendono un tributo con slancio e entusiasmo che io frenerei, non mi sento di associarmi! Pregheranno che io non abbia un giorno in più, perché ho intenzione di usare tutti i giorni che mi restano per fare quello che ho sempre fatto: rompere le scatole» ha detto la femminista Michela Murgia alla femminista Daria Bignardi. Di fatto, al momento dell'annuncio, è vero che tutti i suoi «nemici» le hanno dedicato un necrologio in vita pelosissimo, apotropaico, quasi esorcistico, insomma una dice di avere un tumore al quarto stadio e il detrattore si sente in colpa, e il senso di colpa gli fa pensare: oh, non è che ora viene anche a me?

Io, come scrittore, l'ho sempre stroncata, lei in compenso ha organizzato una raccolta firme per boicottare la pubblicazione dei miei libri (che non ha mai letto, troppo difficili) e La Nave di Teseo e Mondadori sono state sommerse di lettere di femministe invasate che hanno risposto all'appello del mullah Murgia. A me non verrebbe mai in mente di boicottare nessuno, casomai se fosse in mio potere organizzerei un appello per boicottarle il tumore, ma a lei come a tutte le persone malate, a lei non meno che alle altre.

Nel suo ultimo libro, Tre ciotole, edito da Mondadori, Murgia mette molto dentro della sua malattia, direttamente o in senso traslato, sulla precarietà delle nostre vite, con dodici storie in cui la vita dei protagonisti è sconvolta da un evento improvviso, come un tumore appunto, ma anche un licenziamento, un amore che finisce e che dilania. Infilandoci dentro un sacco di rituali, perché è sarda, dice.

È un libro che viene definito «romanzo» ma la stessa Murgia non sa cosa sia un romanzo, però è sicuramente un libro di raccontini intrecciati come un uncinetto di una nonna sarda, e tutti, all'unisono, si sono precipitati a scrivere che è bellissimo. Per la Bignardi, che si crede una scrittrice anche lei, ne è uscito un «lavoro letterario» (rispetto ai romanzi della Bignardi sicuramente), ma la Murgia dichiara una cosa interessante: «Io sono refrattaria alla scrittura letteraria perché mi considero una persona troppo politica e quindi legata al contingente». Questo spiega molte cose: perché non abbia mai fatto letteratura, perché abbia lanciato una fatwa contro di me, perché centinaia di invasate le siano andate dietro. Ha sempre fatto politica, si è sempre occupata del contingente, il che letterariamente significa che niente resterà.

Tuttavia lasciatemi dire: «Il tumore è una malattia molto gentile», un cazzo. «È un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale», anche qui un cazzo. Lo dico per tutte le persone malate, lo dico per tutti coloro che hanno perso una persona che amavano, come io mio padre, assistendole in atroci sofferenze.

L'idea, alla Murgia, gliel'ha data il suo oncologo, spiegandole che agli organismi unicellulari non vengono i tumori, «ma un'ameba non può scrivere i suoi libri», per cui si è resa conto di essere qualcosa di complesso, pur non avendo mai scritto niente di complesso. Oltretutto cosa c'entrano le amebe, anche a uno scimpanzé, a un cane, a una giraffa, a una balena vengono i tumori, e non scrivono libri.

Per cui la cosa interessante del libro è tutta extradiegetica, come direbbe un critico se esistesse ancora la critica: parlare del cancro per lanciare messaggi politici. Raparsi i capelli in diretta Instagram, andare al Salone del libro con copricapi alla Amelié Nothomb, con l'inseparabile Valerio Chiara. Sperando, ha detto, di morire dopo aver visto la caduta del governo Meloni. In questo la invidio: ti restano mesi di vita e pensi alla Meloni. Intorno al cancro della Murgia si sono aperte le danze di tutto il giro amichettistico e presenzialistico del mainstream culturale per casalinghe di Voghera: Valerio, appunto, e la suddetta Bignardi, e la gioiosa Tagliaferri moglie di Lagioia. A proposito di Lagioia, l'altro giorno mi ha detto: «Mi è piaciuto molto quello che hai scritto su Twitter a proposito della Murgia, sei stato l'unico non ipocrita». «Ma dai, e perché non hai commentato o ritwittato?». «Vabbè te lo sto dicendo adesso».

È questo l'amichettismo, è questo il tumore del mondo della culturina italiana che vive presentandosi i libri a vicenda e succhia le cellule di un tumore vero per preservare le proprie carriere politiche mancate. Una volta ho chiamato la Murgia, lei ha detto «Chi parla?», io «Massimiliano Parente», lei «Cosa? Per carità» e clic. Un'altra volta ho chiamato la Valerio, e lei «Cosa? Per carità», e clic. Devono avere un protocollo comune, i contingenti di chi esiste nel contingente. Le malignità le dicono in privato, non sia mai prendere una posizione scomoda, meglio tenersi il posto nel salotto comodo.

Ma la Murgia, che spero viva altri cinquant'anni e sopravviva anche a me che tanto ho le mie opere per sopravvivere dopo di lei, ha comunque svelato questa cosa importante: sono tutti impegnati nel contingente. Proprio come le amebe, che però sono meno rumorose e no, fanno il loro lavoro e hanno anche il buon senso di non scrivere libri.

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