La forma è una combinazione numerica che rasenta la perfezione. 38-40; 43-45; 22-24. Ogni coppia, in ordine, è il peso, il diametro e l'altezza. La forma è l'unica che conserva la tradizione. È quella che non cambia nei secoli, che non subisce le influenze delle innovazioni, che viene esportata nel mondo con un codice univoco e inimitabile. Il Parmigiano Reggiano è l'incontro sublime di forma e sostanza. Dove forma e sostanza, al contrario di ciò che sostenevano i filosofi antichi, non sono mai opposti. È fusione che diventa prelibatezza. Il simbolo perfetto del made in Italy. Radici lontane ma piantate sul terreno delle pianure del Po, lì dove nell'epoca medievale i monaci benedettini e cistercensi chiusi nelle loro abbazie trovarono la ricetta ideale per un formaggio che potesse essere conservato a lungo e trasportato agevolmente. La forma che diventa leggenda. E acquista valore. Tanto da assurgere a valuta di scambio e da venire usata da contadini e produttori di latte per pagare tasse e affitti. Nel Medioevo si dava in pegno per risolvere i duelli o per riscattare i prigionieri. La sua fama era tale che negli scritti di Leonardo da Vinci si trova persino menzione di un progetto per un «armadio stagionatore». Giovanni Boccaccio nel paese del Bengodi narrato nel Decameron la descrive così: «Et eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n'aveva». Si narra che Napoleone Bonaparte fosse un tale estimatore del Parmigiano da pretendere che durante le campagne militari fosse incluso nelle razioni alimentari dei suoi soldati. Fonti storiche rintracciano il Parmigiano persino nei racconti di viaggio di Marco Polo.
Dalle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna (a ovest del Reno) e Mantova (a sud del Po) al mondo interno: l'eco si diffonde travalicando i confini. Quei confini, intesi come regole, che verranno messi nel 1928 dai produttori per erigere una barriera - il Consorzio volontario per la difesa del Grana Reggiano - a protezione della qualità e dell'autenticità della loro creatura. Al giorno d'oggi qualcuno la chiamerebbe sovranità alimentare, che va di pari passo con l'identità. Talmente forte, quest'ultima, da rappresentare l'eccellenza, l'artigianalità, ciò che fa dire che gli italiani lo sanno fare bene. E che fa anche bene alla salute, se è vero che il medico Luigi Pasteur nel 1901, dopo accurati studi, lo raccomandò a bambini e anziani per la sua digeribilità e i suoi ricchi nutrienti. La forma che diventa anche custode della tradizione ma anche di segreti. Come i documenti che i partigiani nascondevano lì, proprio dentro le forme, durante la Seconda Guerra Mondiale. Perché chi oserebbe mai guarderebbe dentro una forma così sacra e intoccabile?
Una sacralità così universale che quando nel 2012 il sisma dell'Emilia ne mise a dura prova la produzione il clamore mediatico fu tale che si mise in moto una gigantesca macchina della solidarietà. Perché il brand awareness, come dicono gli inglesi, è più forte della catastrofe. E non conosce confini. Non per nulla la forma ha raggiunto anche lo Spazio entrando a far parte del menù degli astronauti Luca Parmitano e Samantha Cristoforetti durante le loro missioni.
Giovannino Guareschi scriveva: «A fissare con una fortissima lente d'ingrandimento la grana del parmigiano, essa si rivela non soltanto come un'immutabile folla di granuli associati nell'essere formaggio, ma addirittura come un panorama. È una foto aerea dell'Emilia presa da un'altezza pari a quella del Padreterno». La forma è l'immagine dell'infinito.
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