Un personaggio di un racconto dello scrittore ungherese László Krasznahorkai è architetto. Europeo, giunge in Giappone, ospite di un amico di Kyoto, cullando il sogno di assistere a La ricostruzione del Santuario di Ise (questo il titolo). Non si può, gli ha già detto in tutte le salse l'amico, perché la periodica ricostruzione del complesso, ogni vent'anni, non è uno spettacolo destinato al pubblico, bensì l'essenza della ritualità giapponese e soprattutto dello shintoismo, e rappresenta l'impermanenza delle cose. Oltretutto, nel Santuario di Ise abita Amaterasu, la dea del sole, antenata delle famiglie imperiali che si succedono... Ma l'architetto insiste. E insiste a tal punto che alla fine qualcosa ottiene: le autorità che sovrintendono all'operazione concedono agli amici e ad alcuni giornalisti di seguire il Misoma hajime-sai, cioè la preghiera per l'inizio del taglio degli alberi hinoki con cui sono fatte le varie parti del Santuario. Inoltre, altro privilegio concesso, possono incontrare quello che noi chiameremmo il capocantiere, un anziano falegname che dedica la vita a un lavoro che ha qualcosa di divino: cancellare tutto e rifarlo esattamente com'era prima, per rinnovare il ciclo del tempo in quel luogo di culto particolare detto jingu. Il falegname dice che «il jingu si muove con l'uomo attraverso il tempo, mentre la divinità invece non invecchia, così un dio eternamente giovane trova il suo posto nel jingu eternamente giovane». E così sarà per sempre. Insomma, il Santuario di Ise e l'indispensabile foresta di hinoki sono (devono essere) immortali.
Il racconto di Krasznahorkai si svolge nel 2013, durante l'ultima ricostruzione dello jingu di Ise (nel 2019 Electa vi ha dedicato il libro Sengu. La ricostruzione del Santuario di Ise. Il Giappone millenario fotografato da Miyazawa Masaaki). Dunque la prossima, la sessantatreesima, avverrà nel 2033. Intanto, un altro tempio shintoista che sorge in un'altra foresta, e un altro architetto rapito dal loro irresistibile fascino sono spuntati dalla penna di un'altra firma la quale, come l'autore ungherese, appartiene a un altro mondo, a un'altra cultura. Lei è Radhika Jha, è indiana e nei «Ringraziamenti» in coda al suo romanzo La foresta nascosta (Sellerio, pagg. 326, euro 17, traduzione dall'inglese di Gioia Guerzoni) scrive: «Non credo che capire un'altra cultura sia impossibile, e forse però la propria cultura resta la più difficile da comprendere». L'affermazione vale anche per il protagonista del libro, Nakamura Kosuke, il quale lungo tutta la narrazione ci appare avvolto da un'aura di tristezza, sentendosi esule in patria.
Siamo ai giorni nostri. Kosuke, che si divide fra Los Angeles, dove vive la sua fidanzata Kirsten, e New York, dove risiede, riceve un sms dalla sorella, Asako: «Papà è morto, meglio che torni a casa». Quell'«a casa» vuol dire a Tokyo, che Kosuke ha lasciato una ventina d'anni prima per inseguire all'estero il successo, mettendo in valigia una borsa di studio in Architettura. Missione riuscita soltanto in parte, perché il mondo del cinema è una giungla insidiosa, e la società di Kosuke che si occupa di scenografie ed effetti speciali è più preda che cacciatrice. Da otto anni Kosuke non mette piede «a casa». Per otto anni non ne ha avuto nostalgia. Ma ora, la morte del padre e la mancata partecipazione ai suoi funerali fanno montare in lui il senso di colpa non appena tornato in quel posto dove tutto è cominciato e dove tutto finirà: al Kokubunji Hachimangu Jinja. Per il resto del mondo è «un piccolo santuario di provincia», nel quartiere di Nakano, per il Nostro è il luogo dove crescono e affondano le sue radici. Suo padre ne era il sacerdote ma...
La foresta nascosta è anche una foresta di «ma», di dubbi, di contrattempi, di ostacoli. Il tempio spetterebbe alla sorella maggiore, ma lei lo scarica su Kosuke. Il sostituto del padre morto, Horiike, svolge al meglio il proprio compito, ma la foresta è stata venduta dal padre per far fronte alle spese ingenti e all'inasprimento delle tasse. Kosuke si prende in carico la gestione del tempio, ma si fanno vivi quelli della Yakuza che hanno fiutato l'affare e a modo loro, cioè con velate minacce e palesi intimidazioni, pretendono di acquistarlo. Allora Kosuke si rivolge al Jinja Honcho, l'Associazione dei santuari shintoisti, per avere un sostegno, ma il padre non ne era socio, quindi nulla da fare. Inoltre ci sono due «ma» che vengono dal cuore. Kosuke ama Kirsten, ma quando lei viene a fargli visita per qualche giorno avviene il distacco fra i due, lei gli dice «tu sei moderno fuori e tradizionale dentro» e lui capisce che lei non potrà mai comprendere il senso della sua missione, cioè diventare finalmente uomo dove è nato, non in una società di estranei come Hollywood. E poi c'è Akemi... Quando erano compagni di scuola, a Kosuke era del tutto indifferente. Ma ora è una donna di abbagliante bellezza e gravata da un fardello morale di cui soltanto alla fine riuscirà a liberarsi.
È Akemi l'unica a capire il Nostro e a riportarlo davvero nell'anima del Giappone, invitandolo al teatro kabuki, cucinandogli i piatti della sua infanzia, appoggiando la sua scelta di non disperdere il patrimonio di spiritualità e tradizione che abita quella che lui chiama hikinomori jinja, «la foresta nascosta», e che ruota intorno ai kami dello shintoismo. Da ragazzino, lui i kami li temeva: durante il rito di purificazione, si aspettava sempre che la bacchetta si sarebbe fermata su di lui, indicandolo come indegno e quindi impurificabile. «Crescendo, cominciò a dubitare che i kami esistessero, perché avrebbero dovuto essere ciechi o, peggio, stupidi per non vedere un miscredente tra di loro».
Evidentemente, i kami vedevano lungo, concedendogli il tempo necessario per tornare nel luogo da dove era partito, per saldare la conclusione con l'inizio, per chiudere il cerchio con una rinascita che adesso, finalmente, si merita.
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