La sfida decisiva di Tzipi Livni l’ex agente del Mossad che vuole diventare Golda Meir

Sua madre assaltava e svaligiava treni inglesi. Suo padre venne condannato a quindici anni di carcere da una corte militare britannica. Lei, se tutto va bene, può diventare la Golda Meir del ventunesimo secolo. A settembre potrebbe uscire vincitrice delle primarie di Kadima e a quel punto essere posta a capo del governo al posto del dimissionario Olmert. Ma la signora Tzipi Livni, 49enne ministro degli Esteri israeliano con alle spalle una turbolenta carriera da Mata Hari del Mossad, sa che in politica nulla è scontato. Soprattutto se ai vertici del tuo partito ci sono un ex capo di Stato maggiore durissimo e senza scrupoli come il responsabile dei Trasporti Shaul Mofaz e un ex capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) aggressivo come il ministro della Sicurezza Avi Ditcher. Ma il suo nemico principale alberga dentro di lei, si nasconde in quel carattere discontinuo che la fa scalpitare troppo o la fa apparire incapace di decidere. È il suo tallone d’Achille, è la naturale conseguenza di un quoziente intellettivo capace di farle superare la soglia della genialità, ma anche di farla macerare nell’incertezza. Sa che il destino le ha consegnato un pedigree da manuale, ma sa anche che in questi due anni da ministro degli esteri non sempre lo ha usato al meglio.
In Israele nessuno dimentica le sue espressione da gatta imbronciata nei 34 giorni di guerra ad Hezbollah. In quella torrida estate del 2006, pur non condividendo l’idea di Olmert e degli alti comandi di attaccare a testa bassa, Tzipi se ne resta al suo posto senza protestare, senza dimettersi. Poi durante l’inchiesta della commissione Winograd pugnala alle spalle il premier, dissociandosi pubblicamente dalla gestione della guerra. Lo sconcerto dell’opinione pubblica la costringe però ad un umiliante dietrofront. Le recenti rivelazioni sul suo passato da agente del Mossad e di grande cacciatrice di terroristi palestinesi in Europa sono, a detta di molti, un tentativo di far dimenticare quella figuraccia. Ma quel passato è autentico e s’addice perfettamente a un aspirante premier israeliano. Entrata nell’intelligence al termine di un brillante servizio di leva con il grado di tenente, la Tzipi si laurea in legge e firma per l’arruolamento nel Mossad. Nei primi anni ’80 si ritrova a Parigi, infiltrata in quegli ambienti della sinistra «gauche caviar» dove terroristi, militanti e liberi pensatori si mescolano e confondono tra le fumose brasserie della Senna. Da lì a girare per mezza Europa è un passo. Ma dura poco.
L’atto finale per Tzipi arriva il 21 agosto 1983. Quel giorno ad Atene una squadra del Mossad, attivata grazie alle sue informazioni, intercetta ed elimina Mamoun Maraish un alto dirigente dell’Olp.
La missione riesce, ma lei è bruciata e i superiori la fanno rientrare in Israele. La successiva carriera negli uffici legali del Mossad affina la sua intelligenza e le sue doti di raffinato leguleio capace di tessere piani al limite dell’immaginazione. Da dietro quelle scrivanie Tzipi la ragazza “pasionaria”, figlia di due militanti dell’Irgun ricercati come «terroristi» dagli inglesi, incomincia ad assaporare il fumo sottile della politica. Il primo a scoprirla, ma anche ad umiliarla, è il vecchio Ariel Sharon.
Nel 2003 l’ex avvocato del Mossad passato tra le fila del Likud pensa di esser pronta a sedersi sulla poltrona di ministro della sicurezza. Ma il vecchio Sharon fedele all’idea che la gonna non s’addica alla sicurezza, la relega in un incarico di secondo piano, l’immigrazione. Tzipi non demorde. Il suo capolavoro è il documento del 2004 con cui convince i ministri del Likud a votare il ritiro da Gaza pur restando fedeli ad un referendum interno che lo rifiuta in toto.

Con quel distillato di ambiguità l’ex spia mette le mani sul ministero della Giustizia, esordisce nella sfera della grande politica nazionale si conquista la fiducia del ruvido Arik. Ora deve solo dimostrare di esserne la vera erede.

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