La sfida dell'economia Adesso stiamo attenti alla casta delle parti sociali

Da Cgil e Confindustria fino alla miriade di sigle anonime: tutti predicano il bene comune e poi difendono il loro orticello

La sfida dell'economia 
Adesso stiamo attenti  
alla casta delle parti sociali

Con rispetto parlando, ma siamo proprio sicuri che le cosiddette «parti sociali» siano l’incarnazione del bene comune? E che la loro sia l’unica bocca della verità di questo martoriato Paese? Siamo sicuri che abbiano il curriculum in ordine per ergersi a censori e guide morali, veri e propri guru, unici in grado di indicare la strada giusta per uscire dalla crisi? Faceva un certo effetto vedere l’altro giorno le 36 sigle autonominatesi «parti sociali» che si accalcavano attorno al tavolo di Palazzo Chigi, doppia e tripla fila, solo posti in piedi, nemmeno un buco per infilare tutti i cartelli con nomi (per altro) sconosciuti ai più. Confedir, Ciu, Cuq, Confedertecnica, Confetra e Assolavoro: per l’amor del cielo, ognuno di loro farà benissimo il proprio mestiere. Ma il loro mestiere, appunto, è difendere il piccolo orticello dei loro iscritti. Mica quello di salvare il Paese.

Si chiamano parti proprio per questo motivo: fanno la parte della loro parte. Niente di più. E se vogliamo dircela tutta quella sovrabbondanza di sigle attorno al tavolo, lungi dall’essere la soluzione, fa invece parte del problema. In effetti se siamo arrivati a questo punto in Italia, se la crescita è bloccata, se le riforme stentano a partire, se l’economia è ingessata, la colpa è anche e proprio di un eccesso di sindacalizzazione, di un particolarismo spinto, della difesa strenua dei propri interessi che ogni categoria fa, dagli autotrasportatori ai taxisti, dai gondolieri ai maestri di sci.

Difesa legittima, sia chiaro, ma se questo è un Paese in difficoltà lo si deve anche all’esistenza di una miriade di sigle, di un’infinita di corporazioni, lobbies che hanno potere di veto su qualsiasi decisione, che si oppongono a qualsiasi cambio di marcia, a qualsiasi innovazione o liberalizzazione.

Alla guida di questo feudale manipolo di parti, o meglio «particine sociali», ci sono i giganti Confindustria, Cgil Cisl e Uil. E anche qui, a essere sinceri: siamo proprio sicuri che i grandi imprenditori, che hanno spolpato questo Paese, e le confederazioni sindacali, che lo hanno praticamente occupato e violentato, abbiano tutte le carte in regola per ergersi a giudici in terra del bene e del male? Davvero si sentono autorizzati a salire sul pulpito, a far la predica, davvero sono convinti di avere la ricetta giusta per risolvere i problemi?

Sempre con rispetto parlando, ma pare che non sempre in questi anni la Confindustria abbia difeso la piccola e media impresa, vera risorsa di questo Paese: ha sempre difeso i grandi gruppi, questo sì, magari anche quelli a partecipazione statale, ha organizzato importanti convegni, lauti pranzi e cene da Santa Margherita a Capri, ha mantenuto una organizzazione mastodontica (oltre 4mila dipendenti, una struttura burocratica più grande del ministero degli Esteri). Era tutto nell’interesse del Paese? E Cgil Cisl e Uil? Hanno fatto davvero l’interesse generale dei lavoratori? Con la legge Mosca che ha garantito pensioni gratis ai loro dirigenti? Con il meccanismo dei patronati che ha rimpinguato le casse confederali, al di fuori di ogni banale principio di trasparenza? Per dire: davvero i sindacati possono dare lezioni di moralità economica, loro che non hanno mai fatto nella loro storia un bilancio consolidato?

È giusto abolire le Province, per carità. Ma sarebbe giusto anche abolire un po’ dei costi di Confindustria, magari un po’ di potere d’interdizione dei sindacati e delle corporazioni. È giusto tagliare i costi del Parlamento, ma forse sarebbe bene tagliare anche qualche contributo ai patronati. Perciò ha ragione il Foglio quando dice che, ancor prima di pretendere, le parti sociali dovrebbero dire quel che daranno. Perché è un po’ troppo facile sedersi al tavolo e fare l’elenco dei problemi, dimenticando di essere in realtà parte integrante dei medesimi problemi. Kennedianamente parlando, la prima domanda che dovrebbero porsi quei 36 strizzati a Palazzo Chigi è: noi che cosa possiamo fare? A che cosa rinunciamo? Quale privilegio di corporazione siamo disposti a mettere sul piatto per il bene comune? Invece niente: si ammassano lì e pontificano, e il giorno dopo escono sui giornali come le autorità morali dell’azione di governo. «Questo va bene, questo non va bene, questo va fatto così, quello colà, con i tempi non ci siamo». Non si accontentano di essere quello che sono cioè «parti»: pretendono di rappresentare l’interesse di tutti. E così noi, che come è noto, non abbiamo nessuna simpatia per la classe politica, noi che non abbiamo mai risparmiato nulla alla corporazione dei parlamentari, noi che non smetteremo mai di fare le pulci ai bramini di Palazzo, ecco, di fronte alla impunita tracotanza delle parti sociali finiamo perfino per rivalutare un po’ l’altra parte del tavolo.

In effetti abbiamo sempre avuto l’impressione che di casta non ce se sia una sola in Italia: e quella che si chiama «parti sociali» per certi versi è ancor più dannosa di quella politica. Soprattutto quando si traveste da bene assoluto.

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