Bertram Niessen, ricercatore e studioso di sociologia urbana, che lega alla progettazione culturale e all'arte elettronica, ha vissuto in molte città europee ma la sua base, da anni, è Milano, girata fra hinterland e zone più o meno centrali. Quello che più gli interessa sono le trasformazioni urbane, come una delle più clamorose degli ultimi decenni: la scossa subita dall'idea di città e di futuro nel corso della pandemia. Quando la gente dalle città voleva scappare, i grattacieli sono diventati prigioni, e si parlava tanto di rinnovamento, vivibilità, ampi spazi, dehor, piste ciclabili, boschi sui terrazzi... Da questo «choc urbano» è nato Abitare il vortice (Utet, pagg. 288, euro 19), un saggio che analizza «Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo».
Bertram Niessen, è così? Le città hanno perduto il senso?
«La tendenza riguarda la maggior parte delle città europee, inclusa Milano. Tutte le traiettorie economiche degli ultimi decenni - la gentrificazione (che trasforma le zone popolari in zone di pregio, ndr), la turistificazione, la disneyficazione - fanno produrre soldi, ma tendono ad allontanare le persone dai luoghi in cui vivono; sia fisicamente, dato che i prezzi non sono più abbordabili, sia emotivamente, poiché non si riconoscono più nella città».
La pandemia ha accentuato la perdita di senso? A Milano c'erano tanti progetti, e poi...
«Milano non è la città a cui guardare per capire l'Italia, perché le logiche lungo cui si muove sono più simili a quelle dell'Europa centrale».
Quindi?
«Milano ha fatto una scelta di costruzione di politiche urbane coerentemente improntate all'idea di servizio: l'ha fatta meglio di altri in Italia, e molte cose funzionano, insomma è una città molto ergonomica ma, forse, il senso non è solo una questione di ergonomia... Il senso si costruisce in relazioni più ambivalenti».
Scrive che la pandemia ha creato delle «crepe». Che significa?
«È una metafora che ha a che fare con la fine dell'intimità che legava le persone agli spazi di ogni giorno. È una questione molto individuale: ed è così, appunto, che è diventato il rapporto con la città, molto individuale. Le cose che si facevano naturalmente in collettività sono state messe in crisi: è una crepa emotiva, sociale e relazionale».
Le città, scrive, sono definite dal movimento, ma col Covid si sono fermate. E ora?
«I modi di stare nella città si costruiscono con lo stile di spostamento delle persone, per questo certi stereotipi sul traffico dicono molto dello spirito prevalente... Se si pensa all'identità di una città e a come si costruisce il rapporto fra persone e collettività, la mobilità è fondamentale».
E con il lockdown?
«La mobilità è entrata in crisi. Ora però tante cose stanno rientrando, il tasso di spostamento a Milano è quasi tornato al livello prepandemia».
Parlando di mobilità, però, si pensa di abbassare il limite di velocità a 30 km/h e allo stesso tempo si aumenta il prezzo del biglietto dei mezzi pubblici...
«Io sono favorevole al limite di 30 km/h, ma come filosofia, come una serie di interventi strutturali di miglioramento della qualità delle relazioni fra persone e città, sulla linea di altri centri europei. Secondo le proiezioni dei ricercatori del Politecnico, il traffico diminuirà. Certo bisogna lavorare per una rete di piste ciclabili vere... Quanto al costo dei biglietti, è un grosso problema: calmierare i prezzi dovrebbe essere una priorità. L'elefante nella stanza, però, è un altro».
Quale?
«Quando parliamo di Milano, parliamo di un'area metropolitana di 2/4 milioni di persone; ma, quando si fanno le politiche, si ragiona su meno di un milione e quattro, il Comune. Invece bisogna pensare all'integrazione dell'area metropolitana, che è una questione di politica e di politiche».
Pensare su scala più grande?
«Sì, e questo vale per molte misure, per esempio le piazze tattiche (oggetto di interventi estetici e ricreativi leggeri, ndr), che fanno tanto litigare, e che molti ritengono una foglia di fico: anche qui è un problema di scala».
È possibile una città/paese, in cui hai tutto entro i famosi «quindici minuti»?
«Il tema della città di prossimità è stato sposato da molte amministrazioni per diminuire la mobilità e per una maggiore fruibilità dei servizi vicino a casa. Anche qui è una questione di gradi. Il paesello non è neanche auspicabile, anche se si realizza già in certi quartieri residenziali come Baggio, Niguarda, Affori, dove c'è una vita di quartiere vecchio stile, con l'ombra della gentrificazione».
Anche lì?
«Sì. Questa logica mangerà la città se non vengono prese misure ad hoc a livello nazionale».
Lo stesso vale per i negozi? Molti chiudono, e d'altra parte certe zone sembrano piene solo di locali e ristoranti...
«Dopo il Covid ci troviamo in una fase di transizione: la città sta prendendo una nuova forma, metro dopo metro. Però il rischio è che, dopo il boom di certe zone, le aree disneyficate diventino dei baracconi: è la direzione verso cui vanno Sarpi e Nolo a Milano, ed è quello che è già successo a Kreuzberg, a Berlino, che era il quartiere della controcultura e, oggi, è una grossa macchina macinaturisti, che ha perso la sua identità».
Insomma le città possono recuperare il senso perduto?
«In parte sì. La mobilità è riaumentata, le persone hanno meno paura. Però il senso va ritrovato nel rapporto fra le persone e la città e, quindi, serve una riflessione culturale che ci offra le categorie per ripensare questo rapporto».
Per esempio?
«Ci sono città in Italia che rischiano di morire di troppo turismo. O considerare vincente solo l'idea di vendere meglio la città, il cosiddetto urban branding, è una strategia miope, che tende all'ipercompetitività, anziché a creare un ecosistema più ampio.
C'è qualcosa che non funziona, e dobbiamo costruire le categorie per affrontarlo. Il lavoro da fare è tanto e va oltre destra e sinistra: se non ci sarà una riflessione di sistema su un'idea di sviluppo, nei prossimi settant'anni assisteremo a una corsa contro un muro».
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