La sinistra non si fida del governo: il ritiro dall’Irak deve essere totale

Massimiliano Scafi

da Roma

Un ritiro «graduale», «responsabile», «concordato», magari anche parziale. Insomma, è quasi un «non ritiro» quello di cui Massimo D’Alema parlerà il 12 giugno a Washington con Condoleezza Rice e poi a Bagdad con Hoyshar Zebari. «La presenza militare italiana sarà ridotta - prevede il ministro degli Esteri iracheno - , ma ci sono due modi per far rientrare le truppe, quello olandese e quello spagnolo. Io penso che il governo di Roma sia cosciente dei vantaggi del primo. Con D’Alema discuteremo infatti del contributo militare e della collaborazione in una serie di progetti». I «vantaggi» di cui parla Zebari sono forse un sinonimo di commesse. Per ottenerle, potrebbero restare 800 soldati a protezione delle attività civili e di ricostruzione. E una conferma indiretta arriva pure dalle parole di Romano Prodi sulle polemiche per il 2 giugno: «Non capisco perché la pace e gli uomini in divisa non debbano andare d’accordo. La pace è nella nostra Carta e gli uomini in divisa ne sono i custodi, in Italia e all’estero».
Ma un simile scenario non piacerà sicuramente all’ala sinistra della maggioranza, che vorrebbe anzi far rientrare pure i soldati impegnati in Afghanistan. Dice il verde Paolo Cento: «Saremo responsabili verso gli alleati, ma dopo gli attentati di Kabul che hanno dimostrato che la pacificazione non è acquisita sarebbe un errore non riesaminare la questione». Aggiunge Elettra Deiana, Prc: «Noi siamo per venire via anche da là. Ne discuteremo perché facciamo parte di una coalizione, ma dev’essere una discussione seria, il nostro sì non è scontato». E nemmeno lo scenario bis, che prevede uno spostamento dei militari da Nassirya a Kabul, va a sangue alla componente più radicale dell’Unione. Avverte Marco Rizzo, Pdci: «Niente baratti tra il ritiro dall’Irak e una rafforzamento della presenza in Afghanistan».
Le due pratiche sono però fatalmente e strettamente connesse. Entro la fine del mese infatti il Parlamento dovrà votare per il rifinanziamento di tutte le nostre missioni all’estero: dall’Irak all’Afghanistan, dai Balcani al Libano, dal Sudan al confine tra India e Pakistan. Un appuntamento cruciale per il governo al quale la maggioranza rischia di presentarsi divisa. Nero su bianco, c’è un accordo pre-elettorale sottoscritto dai partiti di centrosinistra per un ritiro da Nassirya e una conferma degli impegni nel resto dello scacchiere. Ma se davvero il ritiro non dovesse essere totale, se somigliasse al rientro graduale già programmato dal governo Berlusconi, allora tutto potrebbe tornare in gioco. Olivero Diliberto mette fretta al governo: «Non c’è nulla da studiare. Il comandante delle truppe ha detto che per tornare a casa ci vogliono poche decine di giorni». Si tratta adesso di tradurre le poche decine in date più precise. I mediatori sono già al lavoro, anche se il contemporaneo aumento della pericolosità del teatro afghano sta complicando la ricerca di un’intesa.
Luciano Vecchi, responsabile esteri dei Ds, invita a non mischiare i due dossier: «La legittimità della missione a Kabul deriva dal mandato preventivo dell’Onu. Basta considerare che in Afghanistan ci sono Paesi, come Francia, Spagna e Germania, che hanno rifiutato l’intervento in Irak o se ne sono tirati fuori.

Per Kabul il punto a vedere la qualità del nostro contributo e gli eventuali aggiustamenti». E Mauro Fabris, capogruppo Udeur alla Camera, ricorda che «l’unica linea, anche in politica estera, che può tenere insieme la maggioranza è quella sancita nel programma dell’Unione».

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