La disputa andava avanti da secoli. Le vicende giudiziarie da settant'anni. E ora il verdetto finale emesso dalla Corte suprema indiana fa temere ulteriori strascichi di violenze. Ieri i cinque giudici del più alto organo giurisdizionale del Paese hanno deciso: il sito di Ayodhya, nello Stato settentrionale dell'Uttar Pradesh, da sempre conteso tra induisti e musulmani, spetta ai primi. Il premier Narendra Modi, rieletto a maggio, incassa la vittoria politica. Ma nel frattempo ha innalzato il livello di sicurezza in tutta la nazione, inviando 4mila militari sul luogo e tenendo le scuole chiuse in Uttar Pradesh.
La paura di una nuova escalation c'è: nella fase più sanguinosa del conflitto nato attorno al luogo, sacro per entrambe le religioni, si sono contati migliaia di morti. Grande poco più di un ettaro - come un campo di calcio - il sito di Ayodhya si trova nell'omonima città del Nord dell'India. I fedeli indù - la maggioranza nel Paese, mentre gli islamici rappresentano il 14% della popolazione - ritengono che lì sia nato, 7mila anni fa, il dio Rama, il guerriero che lotta contro i demoni. Nella prima metà del 16esimo secolo, tuttavia, per volere dell'imperatore Babur lì fu costruita la moschea di Babri. Secondo gli induisti per erigerla venne distrutto un precedente tempio dedicato a Rama. Fu la miccia che infiammò lo scontro: entrambe le comunità rivendicavano il controllo di quel territorio.
Nel 1949 comparvero all'interno della moschea alcune statue del dio Rama. Furono intentate le prime cause civili, e i musulmani accusarono il governo di essere stato connivente con gli indù e di aver tollerato l'atto provocatorio. A quel punto le autorità centrali decisero di dichiarare ufficialmente conteso il sito e di sbarrarne gli ingressi a entrambe le comunità. Nei decenni successivi, contemporaneamente al rafforzamento dei nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party, il partito di Modi, cominciarono a farsi sempre più forti le pressioni per rimpiazzare la moschea con un tempio indù.
La prima sentenza sul caso arrivò nel 1986: un tribunale locale ordinò la riapertura dopo 37 anni di Ayodhya, stabilendo che anche gli induisti dovessero avere accesso agli spazi di preghiera. Il verdetto, però, non riuscì nell'intento di riportare la concordia. Tutt'altro: nel giro di pochi anni la situazione precipitò. Guidati da esponenti del Bjp, nel 1992 migliaia di attivisti indù - i «Karsevaks» - marciarono su Ayodhya. In 200mila lanciarono l'assalto alla moschea e la demolirono. Fu a quel punto che gli scontri interreligiosi eruppero più violenti che mai in tutto il Paese. Tra gli episodi con il numero più alto di perdite ci furono gli attentati di Bombay del marzo 1993: 257 morti in un solo giorno. Le organizzazioni per i diritti umani stimano un numero complessivo di vittime attorno alle 2mila, in maggioranza musulmani.
Ma la violenza non si fermò: dieci anni dopo, nel 2002, nello Stato centro-occidentale del Gujarat l'intolleranza portò a seppellire altri 2mila cadaveri. Gli strascichi arrivano ai giorni nostri. Infine, nel 2010 l'Alta corte di Allahabad, nell'Uttar Pradesh, stabilì che l'area dovesse essere divisa tra indù e musulmani. Ma entrambe le parti fecero di nuovo ricorso, portando la questione alla Corte suprema. Che ieri ha messo - almeno formalmente - la parola «fine» alla vicenda.
La decisione presa all'unanimità dai giudici di Nuova Delhi apre la strada alla realizzazione di un tempio indù ad Ayodhya. La sentenza prevede infatti che il sito venga posto sotto il controllo di un fondo fiduciario che ne supervisioni la costruzione. Allo stesso tempo assegna alla comunità musulmana due ettari di terreno nella stessa città per una nuova moschea. La Corte ha motivato la sua decisione citando alcune fonti archeologiche secondo cui sotto la moschea di Babri sarebbero stati trovati i resti di un luogo di culto indù. L'ipotesi di un nuovo tempio per il dio Rama ad Ayodhya è stata a lungo caldeggiata dal premier Modi. Il quale, però, ieri ha optato per una reazione moderata al verdetto. Mentre la sua comunità esultava al canto di «Jai Sri Ram», «ode al dio Rama», e sparava fuochi d'artificio per festeggiare l'atteso momento, il premier su Twitter sosteneva che la notizia «non è né una vittoria né una sconfitta per nessuno» e auspicava che «possano prevalere pace e armonia».
Appellandosi a «una nuova India» libera dall'odio, il premier del Bjp ha paragonato la giornata di ieri per l'India a quella della caduta del muro di Berlino, di cui ieri ricorrevano i trent'anni. I musulmani hanno espresso invece profonda insoddisfazione per la sentenza. Per il momento però non sembrano intenzionati a fare ricorso e hanno anche loro invitato a mantenere la calma. Tuttavia il timore di un ritorno della violenza è realtà. Asaduddin Owaisi, influente oppositore politico islamico, ha detto ai giornalisti che «l'India sta diventando una nazione induista». Al di là del confine, il ministro degli Esteri del Pakistan, Paese musulmano in pessimi rapporti con Nuova Delhi, ha detto che la sentenza «fa a pezzi la parvenza di secolarismo» presente in India e mostra che le minoranze non sono più al sicuro.
A ieri sera non c'erano notizie di scontri. Modi ha però inviato polizia e paramilitari ad Ayodhya e in altre aree del Paese considerate sensibili. Non è detto che con la sentenza di ieri la vicenda si possa considerare davvero chiusa.
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