Sopravvisse a se stesso e ai tramezzini

Quand’era giornalista ebbe intuizioni scientifiche. Amante insaziabile, un giorno prese letteralmente il volo. Ma ormai si era già premiato con gli arresti domiciliari...

La caratteristica del Nostro fu anticipare. Non era altro che un noto cronista mondano della Tribuna di Roma quando scrisse mezzo secolo prima della fissione dell’atomo: «Dove giungerà la Scienza? Le forme dell’energia naturale sono soltanto quelle che conosciamo o giungeremo alla scoperta di nuove forme di energia dalla forza motrice incalcolabile?». E, avventurandosi ancora più in là nel futuro, aggiungeva nello stesso articolo: «O anche giungeremo a produrre con artificio una cellula vivente?».
Il giornalista, non nuovo a intuizioni scientifiche, le riversava con leggerezza tra un pettegolezzo amoroso e l’annuncio di una novità letteraria. Era il suo talento. I lettori, sentendosi improvvisamente intelligenti, ne erano deliziati. Così, mentre la civiltà era ferma alla fotografia, profetizzò l’avvento del sonoro: «Come è stato possibile costringere la luce a coprire di immagini una lastra, sarà possibile fermare, per mezzo di una materia più sensibile del jodio, le ondulazioni della sonorità».
Un geniaccio, insomma. Pur lontanissimo dal mondo delle scienze, il Nostro sentì come pochi la modernità che stava rivoluzionando l’Italietta umbertina. Fu essenzialmente un uomo di immaginazione, accompagnata da profondo disordine. L’uno eccitava l’altra e sesso e droghe facevano il resto.
Dopo esperienze intensissime, si ritirò a 58 anni per condurre un’esistenza a suo modo monacale. Acquistò una casa colonica, detta con enfasi Villa Cargnacco, e vi dimorò fino alla morte che lo colse a 75 anni. Trascorse questa coda di vita in un mondo tutto suo, quasi come un pazzo. Si autodefinì «postero di sé medesimo», proclamandosi Gran sacerdote di una propria setta. Egli era il Priore, la villa la sua Prioria. Badesse erano le prostitute di cui era insaziabile e che dovevano sottostare nel talamo a liturgie para-religiose. Le divideva, a seconda che fossero brune o bionde, in Nerisse e Melitte. La cuoca era, alternativamente, Suor Intingola o Suor Ghiottizia.
Tuttavia era in perenne eccitazione. Per onorare l’impegno monastico, scriveva in piedi, appoggiato a uno scriptorium come i pii amanuensi. Ma la prosa che fluiva dalla sua penna, una piuma d’oca intinta nell’inchiostro verde, era del tipo: «Una fresca vena di poesia mi salì dalla coglia possente...». Altre volte, afflitto da momentanea penuria di femmine, si lamentava con gli amici di essere sficato, lui che era sempre afficato. Vizioso e zuzzurellone, insomma. Dalla gabbia dorata non uscì quasi mai. Una clausura volontaria che, soprattutto agli inizi, risultò insopportabile allo stesso eremita. Tant’è che il Nostro, prigioniero della sua testa, cercò di evadere col corpo. Un giorno volò dalla finestra del primo piano e cadde al suolo, fratturandosi il cranio. Rimase alcuni mesi tra vita e morte. Non si capì mai se avesse tentato il suicidio o azzardato una mal riuscita acrobazia erotica.
Alla fine si rassegnò agli arresti che si era assegnato, dedicandosi all’abbellimento della fattoria. Chiamò Giò Ponti a aiutarlo nell’arredamento e i migliori fotografi per immortalarne la riuscita. La rivista Domus documentava mensilmente la progressione dei lavori rendendone edotti gli italiani. Tra l’apertura di un arco e la posa di una prima pietra, illustri personaggi venivano a trovare il padrone di casa, nel ricordo delle sue passate benemerenze. Erano in maggioranza commilitoni della Grande Guerra di cui il Nostro fu un pluridecorato. Ne uscì infatti insignito di una medaglia d’argento, una d’oro, la croce di Cavaliere, la croce di Ufficiale dell’Ordine militare di Savoia, tre promozioni e tre croci per merito di guerra.
Questo viavai era tenuto d’occhio dal Fascismo che, pur adulando l’ex combattente, lo considerava inaffidabile. L’apice del sospetto fu raggiunto quando il Nostro si mise di traverso nel flirt crescente tra Mussolini e Hitler. Detestava il dittatore tedesco e, imbarazzando il regime, non perdeva occasione per bollarlo con parole di fuoco. L’ex imbianchino diventava di volta in volta, «pagliaccio feroce» o «marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce ond’egli aveva zuppa la pennellessa». A scanso di sorprese, Mussolini predispose una stretta sorveglianza di Villa Cargnacco, affidandola a sgherri capeggiati da un questore ad hoc. Anche la corrispondenza era sottoposta a censura. Tanto che, per superarla, l’inquilino cominciò a usare i piccioni viaggiatori. Sistema che, con una delle sue alzate d’ingegno, battezzò spiritosamente dei colombigrammi. Egli aveva infatti il genio delle parole, frutto sia di invenzione sia di studio. Scartabellava di continuo il Dizionario del Tommaseo e il Vocabolario Marino e Militare del Guglielmotti alla ricerca di termini rari. A lui dobbiamo sublimi espressioni correnti, come Milite Ignoto, Maggio radioso e Vittoria mutilata.

Ma anche il nome dei grandi magazzini, La Rinascente, e il prosaico tramezzino in sostituzione dell’inglese sandwich.
Questo spirito bizzarro ebbe un trauma giovanile che non superò mai: vergognandosi del nome di famiglia, adottò l’alato cognome di uno zio paterno.
Chi era?

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