«Non è una lettera d'amore per Napoli. Io... Non sono capace di scriverne». Paolo Sorrentino parla così di Parthenope, uno dei film più belli visti a Cannes finora, con Celeste Dalla Porta nel ruolo della protagonista, di cui si racconta la vita dal 1950 a oggi. Questo non significa che vincerà di sicuro, anche se è una sorta di Giano bifronte. Italiano per noi, francese per loro. Insomma un binomio che guarda lontano ma soprattutto gioca la carta furbetta transalpina che in Francia conta più di altri jolly.
Nella vita ci si perde, recita una citazione iniziale ispirata a Céline. Rappresenta quell'attimo fatato in cui si sente esplodere la giovinezza nell'istante esatto in cui si percepisce che sta passando. E trasformando nell'età adulta. Parthenope è i mille volti del sentimento. Il primo amore, indimenticabile. Il fascino intellettuale. Il legame impossibile. Il desiderio. Il cuore sbagliato. La costruzione del futuro. I piani che si capovolgono.
Il docente universitario, interpretato da Silvio Orlando, rappresenta il verismo realista. Il resto è sogno. È la dimensione onirica. Anche il comandante Lauro è vita vissuta, come i periodi scanditi nelle due ore e un quarto di racconto. Il Sessantotto. Il colera. La contestazione anni '70. Lo scudetto numero 3.
Il resto, tutto il resto, compresa l'allusione a Sofia Loren non c'entrano. Sono altro. Personaggi dell'immaginario perché Parthenope è una Grande bellezza fatta meglio. Meno dispersiva. Non farraginosa. Abbraccia solo le emozioni e i batticuore. Il trepidare giovanile e i primi lutti. L'avvenire disegnato e quello che poi trova un posto nel mondo. Microcosmo o macrocosmo che sia.
«I miei film mi piacciono tutti» confessa il regista napoletano. «Sono indulgente e amorevole nei loro confronti» però è chiaro che si passa dall'autobiografismo di È stata la mano di Dio alla biografia di una città e di un popolo al quale poco viene risparmiato.
«Voi napoletani andate a braccetto con l'orrore. Siete orgogliosi di essere furbi ma che cosa ve ne fate di questa scaltrezza da poveri...» recita l'emula che non è la Loren ma, dietro le sue fattezze, si nasconde l'attrice. La diva arrivata. Quella che rinnega la napoletanità e si è trasferita al Nord.
Sorrentino pronto per tornare a Napoli. Non scherziamo. Lì vive il cuore. E lui non ha voglia di ammettere i difetti. Alle strette fruga nella mente cercando una risposta plausibile e prorompe candido come un bambino davanti all'albero della cuccagna: «Io vivo dove vuole mia moglie».
Ricchi i dialoghi che sottolineano i pregi di una sceneggiatura tutt'altro che casuale. Il regista indugia un po' nell'autocompiacimento. «Il botta e risposta è come suonare il pianoforte. O si è capaci o non si impara». Il film ha le tinte forti dell'azzurro napoletano.
E non solo in senso calcistico. Gary Oldman, che interpreta lo scrittore John Cheever, ammette di essere un fan di Sorrentino e che questa era l'occasione sognata a lungo. «Finalmente è arrivata. Il giorno del primo ciak a Capri ho dovuto pizzicarmi la faccia per rendermi conto che era tutto vero. Non si trattava di un sogno». E mette nel personaggio una punta di se stesso. «Avrei potuto fare a gara di bevute con Cheever. Conosco la disperazione e la solitudine. La depressione e la mancanza di ispirazione».
Sembra quasi che un po' tutti si sentano di far entrare luce sul loro lato nascosto.
Eccetto Isabella Ferrari che veste i panni di una istruttrice di recitazione e si cela dietro un paravento. Non mostra il volto ma neppure il suo io. «C'è molto di me in Flora ma non dirò cosa». La veletta di scena, insomma, si intona a uno specchio opaco in cui la Ferrari non si mostra con lo stesso candore di Stefania Sandrelli. Parthenope matura. La donna saggia a carriera raggiunta. Il profumo del ricordo e del rimpianto.
Il sapore di un altro cuore che batte ma non ha trionfato nel matrimonio né nei figli. Una sfumatura che la sensibilità detta a Sorrentino di accompagnare a Che cosa c'è di Gino Paoli. Un ex della Sandrelli. E di cuori infiniti.
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