Spagna signora d’Europa: più tecnica e meno palestra

Certe leggende del calcio sono invincibili. Scorciatoie intellettuali, luoghi comuni buoni per la tribuna televisiva come per il baretto. L’ultimo mito da picconare rapidamente vuole la nostra serie A in ribasso, ma ancora superiore alla Liga. Vuoi mettere? In Spagna, si dice, ci sono Real e Barcellona; le altre sono sparring partner, il nostro campionato è più competitivo. E si vede. È come la poesia a memoria che recita così: Catania o Atalanta se li mangiano il Getafe e il Malaga! Insomma, siamo superiori per grazia ricevuta. E ci sentiamo talmente forti che quando escono i turni di Europa league (la coppa che piace solo prima di iniziarla) crediamo di poter vincere con le terze linee (vedi Udinese e Lazio ridicolizzate dall’Az e dall’Atletico Madrid). Si dice, tatticamente siamo maestri, la capacità nel saper incartare l’avversario è cosa nostra. Una volta. Ora c’è un abisso tecnico tra noi e il resto che conta, iberici in testa. In Spagna la tecnica è una religione che ti permette di far cacciare un Capello brutto e vincente. Sono campioni d’Europa e del Mondo in carica e dominano nelle coppe europee. Quest’anno ne hanno cinque nelle semifinali. Noi, neanche negli anni d’oro, i Novanta. I nostri vanno in palestra a farsi i muscoli e poi fanno la fine di Pato, arrivato qui agile e scattante e ora culturista colto da acciacchi in serie. Loro, che in allenamento si allenano nelle gabbie con i laccetti ai piedi per migliorare tocco ed equilibrio, e noi che chi lancia più lungo per Ibra si prende l’applauso dell’allenatore del più piccolo Milan europeo degli ultimi 10 anni. Una squadra, che sarà pure stata eliminata dall’arbitro, ma che al Nou Camp ha tirato tre volte in porta e che giocava con uno che «solo Messi e Cristiano sono più forti di lui». Leggende italiane e palloni di latta. Noi col centrocampo a tre che fa diga, loro con 4 mezzepunte che pressano alto e che quando perdono palla vanno subito a recuperarla. Dopati? Noi pieni di infortunati e loro, il Barcellona, con la sola assenza di Villa. Basterebbe occuparsi più di pallone che di palestra, che è quello che stava cercando di fare Prandelli prima che una selva di infortuni e una sequela di marameo sugli stage lo deprimessero. Altra cultura.
A Roma Luis Enrique - che sta inculcando il metodo del possesso palla, del gioco manovrato, del modo spagnolo di intendere un calcio bello e vincente - viene preso a pomodorate ogni volta che non si vince. Siamo in Italia. Avere la palla a lungo tra i piedi non serve: contano i tre punti, bisogna verticalizzare altro che cianciare! Lui se ne frega. Con una media a partita del 61% di possesso, i giallorossi stanno inaugurando una nuova, promettente era italiana.

Quella di chi al flipper della palla impazzita, preferisce il calcio vero. Più difficile, più rischioso, probabilmente vincente. Uno sport che, fateci caso, ad alti livelli sta diventando come il rugby. Maledetti spagnoli, la palla non è più rotonda come una volta.

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