Akutagawa, l'amara ironia di un samurai fuori tempo

Lo scrittore giapponese morto suicida nel 1927 soffrì l'occidentalizzazione che cambiò il volto al suo Paese

«Egli aveva trentacinque anni e camminava in una pineta illuminata dal sole primaverile. Ricordando parole scritte due o tre anni prima: Purtroppo agli Dei non è concesso come a noi por fine alla vita...». Nel giugno del 1927, raccogliendo in Vita di uno stolto alcuni suoi frammenti autobiografici, il trentacinquenne Akutagawa Ryunosuke si uccise prima di uccidersi. L'atto pratico, tramite overdose di Veronal, avverrà un mese dopo, il 24 luglio. Tuttavia l'atto mentale, la decisione irrevocabile, era maturata da mesi: «Sono certo che quando incontrerò qualcosa di più sgradevole della morte, non esiterò a morire», aveva stabilito in Domande e risposte nel buio, il dialogo con sé stesso in cui si ritrae senza filtri e senza pietà.

Ma la salita al Calvario dello scrittore giapponese era iniziata un poco più indietro nel tempo, quando a Tokyo, con l'amico Kawabata Yasunari, si aggirava fra le macerie e le vittime provocate dal terremoto del Kanto. Era il settembre del 1923. «Procedeva gaio e veloce come un puledro fra le rovine degli incendi, lungo le strade con i pali e i fili della luce crollati e combusti, fra i terremotati stanchi e stremati e sporchi come profughi», scrisse Kawabata nel necrologio del «figlio del drago» (questo significa Ryunosuke). E aggiunse: «Aveva ancora la vivacità di chi non ha meditato sulla morte». Illazione legittima, ma forse valida ancora per poche ore...

Vari riferimenti a quel disastroso sisma sono presenti in una serie di racconti di Akutawaga datati proprio 1923 che Marsilio ora pubblica, per la prima volta in italiano, nell'antologia Sotto il segno del drago (pagg. 462, euro 18, traduttori vari, Postfazione di Luisa Bienati) che comprende anche narrazioni di genere fantastico, di impianto storico e ispirate alla diffusione del cristianesimo nel Paese del Sol Levante. Il protagonista dei racconti del '23, Horikawa Yasukichi, giovane insegnante di inglese alla scuola per ufficiali della Marina di Tokyo, è una sorta di alter ego dello scrittore, o almeno di quella sua vena che sarebbe fuorviante definire leggera o scherzosa (molto lontana, per intenderci, dal celebre Rashomon che ispirò l'omonimo film di Kurosawa, o da Kappa), ma che comunque assume i contorni di una ironia alta, caricaturale, volta in primo luogo alla critica sociale.

Se il terremoto aveva inferto gravissime ferite al Paese, l'inarrestabile corsa all'occidentalizzazione avviata in epoca Meiji (1868-1912), ora, in epoca Taisho, stava ulteriormente accelerando, nonostante l'ulteriore fardello delle conseguenze della Prima guerra mondiale, e provocava sconvolgimenti di altra natura. Che Horikawa, come del resto lo stesso Akutagawa, vive male. Il capitano di corvetta gli chiede di scrivere un'orazione funebre per il capitano di vascello, lui obbedisce, nonostante il defunto non gli fosse per nulla simpatico, ma poi il preside si appropria del suo coccodrillo senza neppure citarlo, facendogli assaggiare il gusto amaro della gerarchia. Il caporedattore della rivista femminile alla quale collabora con alcuni racconti (perché scrivere è la sua vera passione, anche se gli frutta pochissimi yen) gli chiede «un romanzo d'amore onesto» da pubblicare a puntate. «Parlerà certo di amore moderno?», domanda il giornalista. Risposta: «Mah, non mi convince. Lo scetticismo moderno, i ladri moderni, la tintura per capelli moderna... hanno tutti un loro perché. Ma l'amore non penso che si faccia in modo poi tanto diverso dall'epoca di Izanagi e Izanami», cioè dal tempo della più antica cronaca del Giappone, risalente al 712. Ripensa alla sua infanzia: «Oggi non solo non vede più la furiosa battaglia di Port Arthur nei monelli che giocano alla guerra, ma anche nella furiosa battaglia di Port Arthur non vede altro che il gioco della guerra». E il giorno di Natale, su un autobus, ascolta alcune battute fra un missionario cattolico probabilmente francese, ma che parla un buon giapponese, e una ragazzina sugli undici o dodici anni già un po' maliziosetta e civetta, e il modo in cui il sacerdote invita la fanciulla a sedersi al suo posto lo disturba: «Di sicuro quel volpone del missionario stava scivolando verso la predicazione del Vangelo. I predicatori maomettani brandiscono la spada insieme al Corano e hanno un certo stile nel testimoniare il rispetto e l'amore reciproco tra gli uomini. Al contrario, la predicazione cristiana non si cura di offendere il prossimo. Proclama Dio con la stessa pelosa cortesia con cui si annuncia che ha aperto i battenti la sartoria occidentale accanto. Agli indecisi, offre di barattare la fede con lezioni gratis di lingue straniere. Soprattutto i libri illustrati e i balocchi, che dona ai bimbi e alle bimbe con il proditorio intento di rapire le loro anime in paradiso, sono un crimine bello e buono».

Nei confronti del cristianesimo, per gran parte della sua breve vita Akutagawa oscillò fra rispetto e diffidenza, fra ostilità e ammirazione, come dimostrano i kirishitan mono, cioè i «racconti cristiani», alcuni dei quali, come detto, sono presenti in questa edizione. Più che Gesù Cristo, ovvero «il Nyorai in croce dei barbari del sud» (i primi missionari cristiani che giunsero in Giappone approdarono alle coste meridionali nel 1549), gli interessava il Diavolo. Fino alla fine, al catastrofico 1927. In La ruota dentata troviamo il dialogo fra l'io narrante e un amico. L'amico si preoccupa per le condizioni fisiche e mentali dell'altro. «Non hai pensato di farti credente?». «Se fosse possibile anche a uno come me...». «Non esiste difficoltà alcuna. Basta credere in Dio, aver fede in Cristo quale figlio di Dio e nei suoi miracoli». «Posso credere nel diavolo...».

«E allora perché non in Dio? Se si crede nell'ombra è ovvio credere anche nella luce, non ti sembra?». «Ma esistono anche le tenebre senza luce».

Nelle tenebre il «figlio del drago» Akutagawa visse fin da quand'era in culla e vide sua madre impazzire. Ma lo trovarono morto con la Bibbia sul petto.

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