Gli Stati Uniti contro Billie Holiday è il film biografico, diretto da Lee Daniels e scritto dal Premio Pulitzer Suzan-Lori Park, che racconta il prezzo pagato dalla leggendaria artista afroamericana per il suo impegno contro il razzismo.
L’adattamento cinematografico di un capitolo di un libro del 2015, “Chasing the Scream” di Johann Hari, si concentra sugli ultimi anni di vita di una figura immortale ma poco ricordata, qui ritratta nella dicotomia tra l’immagine pubblica ammaliante e il privato autodistruttivo.
Billie Holiday, del resto, fu una donna a cui il passato traumatico condizionò tutta l’esistenza: l’infanzia vissuta in un bordello di Harlem, con la madre che l’aveva avuta appena tredicenne da un musicista, la condusse a maturare presto una visione violenta del sesso e, una volta adulta, a circondarsi di uomini possessivi e sleali, tra cui mariti e manager senza scrupoli che la usarono solo per far soldi. Tutti tranne un federale di colore, il quale, dopo averne provocato l’arresto, ebbe modo di redimersi e innamorarsi davvero di lei arrivando, per proteggerla, a disubbidire agli ordini impartiti dai superiori “bianchi”.
L’astio delle istituzioni per Billie nacque dal suo essere una persona coraggiosa e fiera, potenzialmente pericolosa per la forte carica eversiva di un brano con cui era solita chiudere i propri concerti. “Strange Fruit”, questo il titolo del pezzo, parla del linciaggio di persone di colore i cui corpi straziati penzolano come frutti dagli alberi. Per gli animi di chi cercava all’epoca riscatto e uguaglianza, la donna divenne un’icona della sfida al sistema. La conseguenza fu che gli agenti dell'FBI iniziarono a perseguitarla. Allo scopo di impedirle di cantare quella canzone su palchi tanto influenti, si decise di fare della donna il capro espiatorio della guerra alla droga: per allontanarla violentemente dal palcoscenico la si arrestò più volte per uso di stupefacenti.
“Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” è un racconto ammantato di crudo realismo ma anche di glamour, che sottolinea come la star forte di una presenza scenica affascinante e di una voce inconfondibile sia prima di tutto una donna che ha consegnato se stessa a un destino di sofferenza. La solitudine, le dipendenze e i fallimenti sentimentali originano in lei da traumi e abusi mai superati anche se lontani nel tempo.
Il film non ci risparmia particolari scabrosi e allusioni alla bisessualità dell’artista: Billie, dai più chiamata Lady Day, è bella, sensuale e sfrontata, un mix di grinta e sregolatezza, passione e dolore.
Andra Day regala una prova attoriale gigantesca, da antologia della storia del cinema, malgrado si tratti del suo esordio sul grande schermo. Nasce come cantante (nel film esegue gli splendidi brani del repertorio di Billie Holiday in maniera soave) e per meglio calarsi nella parte ha perso 20 chili e ha cominciato a bere e fumare. Sia come diva carismatica al microfono, sia come tossica dalla mente annebbiata una volta dietro le quinte, è assolutamente credibile. Un peccato che, pur avendo vinto il Golden Globe come Migliore Attrice Protagonista, l’Oscar le sia stato scippato da Jessica Chastain.
Ciò detto, “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” non va emotivamente a segno. Pur avendo tematiche attuali, pecca infatti di eccessivo didascalismo nella prima parte, quella narrativamente lineare e convenzionale, e fa confusione tra i piani temporali nella seconda, quella in cui irrompono momenti onirici.
Quanto al cast, siamo in presenza di meri figuranti dalla
caratterizzazione monodimensionale, in mezzo ai quali spicca ancora di più il talento cristallino di Andra Day.In definitiva la performance dell’attrice resterà memorabile, ma non si può dire la stessa cosa del film.
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