Il buio delle periferie è nero come un disegno a china

Il problema del degrado dei sobborghi diventa sempre più sentito. Il disegnatore Will Eisner lo ha anticipato

Il buio delle periferie è nero come un disegno a china

Periferie funzionali. Periferie sostenibili. Periferie ossessione elettorale. Periferie del pregiudizio. Periferie da rigenerare. Periferie smart. Periferie multietniche. Periferie che scoppiano. Periferie per cui sarebbe necessario - è l'ultima proposta M5S per Pescara - creare un ufficio speciale alle dirette dipendenze del sindaco, che si metta a capo chino a studiare perché e percome pianificazione demografica, urbanistica, ambientale - quando ci si allontana dal centro storico - sembrino sprofondare in un'anarchia ingovernabile, diventino per l'appunto eccentriche e diano luogo a conflitti armati e rivolte sociali.

Periferie banco di prova, dunque, che, lasciate a se stesse, involvono da luoghi già in partenza problematici a concentrazioni di criminalità e degrado, in cui italiani anziani e poveri vivono accanto a giovani immigrati in una nuova geografia degli ultimi che non trova sollievo, né consolazione, né diritto.

Periferie per cui si va persino al conio di una nuova espressione da esperti: «demixité». Che significa «monofunzionalità»: terminologia ancora più oscura che, nel caso delle aree urbane decentrate, sta ad indicare che ci si può trovare a godere, nel raggio di chilometri, di un solo tipo di attività, nello specifico quella commerciale. Peculiarità che in Italia si addice alla maggior parte delle zone distanti dal centro. Le periferie «funzionali», invece, sono quelle dove oltre ai negozi o ai centri commerciali, si trovano centri di aggregazione sociale, centri sanitari, infrastrutture, progetti e luoghi di riqualificazione urbana, poli turistici e culturali.

Il che è la rarità assoluta, non solo secondo la vox populi e come conseguenza di un sommario sguardo d'insieme se si prende un tram o un bus che conduca ad almeno una diecina di chilometri dalla cattedrale della metropoli di riferimento, ma anche a detta dell'ultima edizione dell'Atlante delle periferie funzionali metro politane (ebbene sì, esiste una pubblicazione così chiamata, ed è a cura del MiBACT). Insomma, un disastro, soprattutto per chi sostiene che sarebbe proprio dalle periferie che dovrebbe partire la riqualificazione del tessuto sociale e lo dice mentre punta il dito contro chi le vede solo come capiente serbatoio di gentrificazione e procede alla dequalificazione e poi allo sgombero.

Questo il presente, che pare nuovo di zecca finché un riverbero letterario non restituisce l'antica verità: nulla di nuovo sotto il sole. Le periferie saranno anche storia recente, ma la loro evoluzione segue schemi che si sono già strutturati secondo una tradizione riconoscibile e che valgono la pena di essere perciò esplorati e compresi. Magari senza annoiarsi troppo. Per crederci basta sfogliare - ma è meglio leggerlo e godersene una ad una le immagini a china in bianco e nero, di potenza ancestrale - l'ultimo capolavoro tradotto in Italia del padre della graphic novel, Will Eisner, nato a Brooklyn da genitori ebrei immigrati nel 1917 e scomparso nel 2005. In Dropsie Avenue, appena mandato in libreria da Rizzoli Lizard (trad. di Leonardo Rizzi, pagg. 192, euro 17), Eisner ha puntato il dito sulla mappa di New York, ha scelto un territorio della memoria, che riassume le periferie occidentali multietniche, e lo ha chiamato Dropsie Avenue, South Bronx. Poi ne ha narrato la storia. Si comincia nel 1870, quando nel Bronx c'erano ancora le fattorie e gli olandesi si tenevano strette le terre dei loro avi per difendere i lotti di raccolto dalle mani dei maledetti inglesi. Si passa attraverso la piccola edilizia residenziale e i primi lotti popolari a fitto basso, regno degli italiani, tra proibizionismo e crisi del '29, fino all'affitto a spagnoli, ebrei e famiglie di colore, con il terrore che questo faccia crollare il prezzo degli immobili. E si arriva alla contemporaneità, ovvero alla creazione di una comunità residenziale che fa della zona un polo gentrificato, per l'appunto, in cui i colori di cattivo gusto di trivani e quadrivani a prezzo agevolato, destinati a nuovi gruppi di abitanti, più poveri e immigrati con gusti diversi e un'attitudine meno responsabile nei confronti di immobili e comunità diventano la testimonianza visibile di una crescita inesorabile.

Sfoggiando dialoghi impastati di conoscenza autobiografica dei quartieri di cui disegna, dialoghi che però rispecchiano esattamente quel che accade qui, in Italia e in Europa, oggi, pur essendo stati scritti negli Stati Uniti un quarto di secolo fa, Eisner si cimenta in una impresa complessa, come dichiara nella introduzione, anche a livello storico: «Tra le tante difficoltà che si incontrano a lavorare in questo mezzo di comunicazione (ovvero l'arte sequenziale), c'è anche la scarsità di precedenti storici. Non esistevano modelli per un progetto che intendeva raccontare le forze sottili alla base della lentissima decadenza di un quartiere».

Eppure riesce non solo ad incantare, ma a creare una consapevolezza: il romanzo a

fumetti sarà anche un genere e come genere, pur avendo una sua nobiltà, sarà anche tra i più pop, ma Dropsie Avenue fotografa e decifra la realtà molto più onestamente di uno studio sociologico radical chic sulla demixité.

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