Al cinema "Il processo ai Chicago 7", l'eccellenza che non va a segno

Un legal-drama dal sapore classico, con un cast di star e uno script di livello, ma che paga il registro a tratti leggero e la patinatura sterile, finendo per non coinvolgere davvero

Al cinema "Il processo ai Chicago 7", l'eccellenza che non va a segno

Dopo l’esordio da regista con Molly’s Game, Aron Sorkin torna dietro la macchina da presa con "Il Processo ai Chicago 7", una pellicola incentrata su una storia vera, quella di uno dei più famosi e scandalosi processi penali statunitensi.

All'indomani delle proteste violente occorse a Chicago durante la convention democratica del 1968, costate undici morti e quattrocento feriti, a essere accusati di incitamento alla sommossa e cospirazione sono sette attivisti: i capo- yippies Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen, fastidioso nel ruolo per il passato clownesco) e Jerry Rubin (Jeremy Strong) dello Youth International Party, l'attivista pacifista David Dellinger (John Carroll Lynch), l'attivista per i diritti civili e anti-guerra Tom Hayden (Eddie Redmayne), gli altri attivisti anti-guerra Rennie Davis (Alex Sharp) e John Froines (Daniel Flaherty) e Lee Weiner (Noah Robbins). Insieme a loro, in maniera puramente pretestuosa, viene coinvolto Bobby Seale (Yahya Adbul Mateen II), co-fondatore del movimento delle Pantere Nere. Uniti solo dal capo d'imputazione, questi front-man di movimenti culturali e politici tanto diversi tra loro, finiranno con l'avere diverse frizioni.

Il lungo processo è presieduto dal giudice Julius Hoffman (Frank Langella), che lo dirige in modo così grottesco e negligente da sollevare dubbi sulla validità del procedimento.

Sorkin, fuoriclasse della scrittura (già sceneggiatore Premio Oscar per "The Social Network"), per "Il processo ai Chicago 7" punta su una messa in scena classica, un certo dinamismo visivo e dialoghi rapidi, alternando al presente dell'aula del tribunale i giorni precedenti la sommossa. Discutibile l'aver contaminato così tanto il registro drammatico con quello della commedia: per parlare di ingiustizia, discriminazioni e poteri forti, soprattutto se riferiti a una vicenda realmente accaduta, avrebbe giovato una maggiore gravitas.

Lo script è calibrato al millimetro, ogni parola e ogni pausa sono al posto giusto per potenziare un effetto manipolatorio che però non va a segno, proprio perché smaccato. Il girato è intervallato da immagini di repertorio, i personaggi delineati secondo cliché, il manicheismo di certi film americani sapientemente sfumato, macchiando la faccia più pulita (quella di Redmayne), e ingentilendo da subito uno dei "cattivi" (un Joseph Gordon-Levitt che sembra più un apprendista "Kingsman" che un giovane procuratore).

Costruito per concorrere agli Oscar, riuscito dal punto di vista tecnico e con un cast di numerose star, "Il processo ai Chicago 7" ha nell'insieme delle varie eccellenze il suo punto debole: una perfezione di superficie e, in quanto tale, tutto sommato sterile. Il cast di celebrità finisce per distrarre, sarebbe stato meglio affidarsi a volti sconosciuti, mantenendo magari il bel cammeo di Micheal Keaton.

Fin troppo urlato, infine, il parallelismo col presente quando si parla di limitazioni dei diritti, clima di persecuzione e repressione del dissenso: temi di caldissima attualità ma affrontati con un crescendo calcolato e teatrale.

Dai cinema "Il processo ai Chicago 7" passerà a Netflix, dal 16 ottobre, risollevando la media qualitativa dei film della piattaforma ma non tanto quanto ci si sarebbe aspettato.

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