Così De Felice ha battuto l'ideologia

"Mussolini e il Fascismo" ha aiutato il Paese a cambiare e a ripensare il suo passato recente

Così De Felice ha battuto l'ideologia

Una volta, già al culmine della sua notorietà e al centro delle polemiche, Renzo De Felice affermò che il difetto maggiore della storiografia contemporaneistica italiana era quello di essere affetta da una sindrome di eccessiva sicurezza. Aggiunse, con una battuta, che lo storico non deve rimanere attaccato come un'ostrica al suo guscio se non vuole trasformarsi in un teologo o in un politico. Lo storico precisò non dovrebbe fornire interpretazioni precotte da sottoporre all'adorazione del pubblico, ma dovrebbe invece procedere ad acquisizioni continue senza curarsi del fatto che tali acquisizioni possano rivelarsi scomode e mettere in discussione giudizi storiografici apparentemente consolidati. Poche battute che a leggerle come devono esser lette sono una garbata lezione di metodologia storiografica.De Felice si era già scontrato, agli inizi della sua carriera di studioso, quando si occupava di giacobinismo italiano e di albori di Risorgimento, con i custodi di una «verità storica rivelata» che, nella fattispecie, si rifaceva alla forte tradizione storiografica giacobina e marxista sulla Rivoluzione Francese e sulle sue conseguenze: una tradizione egemone nella cultura politica italiana (e, forse, anche europea) del tempo. Le sue ricerche sul triennio giacobino in Italia, apparse in piena guerra fredda e tutt'altro che in linea con la versione ufficiale radical-marxista del fenomeno, scatenarono un vero e proprio putiferio. Talune sue affermazioni vennero considerate eresie politicamente «pericolose» soprattutto laddove finivano per sottolineare il carattere utopistico e messianico di alcuni filoni radicali dell'illuminismo e per suggerire una sorta di ideale continuità fra la «democrazia diretta» di Rousseau e la «democrazia totalitaria» del ventesimo secolo. L'ostracismo contro De Felice fu massiccio e, se di esso non v'è memoria al di fuori degli ambienti accademici, ciò fu dovuto al fatto che l'argomento attorno al quale si concretizzò, il giacobinismo italiano, era un tema elitario. Le cose, com'è noto, cambiarono a partire dalla metà degli anni sessanta, quanto De Felice scelse, come peculiare terreno d'indagine, il fascismo: un argomento, cioè, che si riallacciava per certi versi agli studi precedenti, ma che a distanza di qualche decennio, appena, dalla fine del regime e in un paese nel quale l'antifascismo era stato scelto come valore fondante della carta costituzionale era comprensibilmente delicato. Fino ad allora, del fascismo, si avevano visioni molto diverse, talora suggestive e cervellotiche, comunque tutt'altro che «storiche» nel senso proprio del termine. Aveva avuto successo, sia pure elitario, la cosiddetta interpretazione «liberale», quasi prerogativa esclusiva dell'alta cultura europea, secondo la quale il fascismo sarebbe stato la «malattia morale» che aveva colpito la civiltà europea. Accanto ad essa s'era diffusa la cosiddetta interpretazione «marxista» la quale, pur attraverso diversi e tortuosi percorsi argomentativi, concludeva nell'idea che il fascismo fosse il «canto del cigno», l'ultimo sussulto cioè della declinante e fatiscente civiltà capitalista, ovvero, se lo si preferisce, una «controrivoluzione preventiva» per ritardare l'inevitabile trionfo del comunismo. E poi c'era stata quella «interpretazione radicale» che aveva presentato il fascismo come la cartina di tornasole rivelatrice delle tare ereditarie e dei difetti stratificatisi nella storia del Paese. Si potrebbe proseguire a lungo e De Felice, in effetti, l'avrebbe fatto, più avanti, in un volume, intitolato Le interpretazioni del fascismo, che metteva a confronto queste e altre visioni del fenomeno, tutte peraltro parziali.Di fronte a tutti questi approcci, De Felice si rese conto che del fascismo cosa esso fosse realmente stato, quale rapporto avesse davvero avuto con Mussolini e via dicendo si riusciva a capire ben poco. Ogni discorso interpretativo si rivelava inadeguato a cogliere una realtà cangiante. De Felice fu colpito da una affermazione di Angelo Tasca scrittore, storico e polemista ma anche militante politico tra i fondatori del partito comunista poi divenuto feroce antistalinista secondo la quale «definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia». Questa affermazione, contenuta in un bel libro di Tasca dal titolo Nascita e avvento del fascismo, De Felice la fece sua, assumendola come guida per ricostruire, del fascismo, in dettaglio gli avvenimenti, le idee, i propositi. Si trattava di una precisa scelta metodologica, alla quale De Felice sarebbe rimasto incrollabilmente fedele.Uno studioso che ne fu amico oltre che collega, Piero Melograni, disse che, con tale scelta, De Felice si era liberato dall'ideologia ed era diventato un filologo a tempo pieno. Ecco le sue parole: «Alcuni furono cavalieri dell'ideologia, ma Renzo De Felice fu un cavaliere della filologia. La filologia è la ricerca della verità, mentre l'ideologia è la ricerca delle illusioni. La ricerca arricchisce le nostre conoscenze se ha come fine la verità. L'ideologia, al contrario, tende a difendere un castello, molto spesso un castello in aria, ci impoverisce e fa regredire la conoscenza. Per questa ragione porrei De Felice dalla parte del progresso e dei progressisti, mentre definirei i suoi avversari reazionari». Al di là di quel tono, volutamente ma garbatamente, provocatorio, la battuta di Melograni sul connotato anti-ideologico della ricerca storiografica di De Felice è esatta.

Come, pure, è esatta un'altra sua osservazione: «De Felice, quando è stato storico del fascismo e dell'antifascismo, ha aiutato tutti a cambiare, sia nella destra, sua nella sinistra». Meglio, e più lapidariamente, non si poteva sintetizzare il lascito morale ed etico-politico, oltre che storiografico, di Renzo De Felice.

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