«Dopo il 1348 l'arte cambiò perché era cambiato l'uomo. Appena entrata a Siena, la peste aveva reclamato Lorenzetti fra le sue prime vittime. La maggior parte dei giovani artisti era adesso priva di maestri e mezzi di sostentamento». Di questi tempi in cui non si fa che parlare di pandemia mi imbatto, del tutto involontariamente, in un libro che parla di pandemia: Un punto di approdo di Hisham Matar (Einaudi). Del tutto involontariamente perché Matar non è un epidemiologo, un medico, uno scienziato, non è nemmeno uno storico: è quasi il loro contrario ossia un letterato, un flâneur, un diarista divagante, un viaggiatore solitario che non deve rendere conto a nessuno, se non ai propri fantasmi estetici. Visto il titolo originale (A month in Siena), vista la copertina, vista la biografia dell'autore (libico nato a New York nel 1970, cresciuto ad Alessandria d'Egitto, residente a Londra), vista la passione del medesimo per Duccio e seguaci, mi aspettavo un resoconto anglo-toscano o tosco-americano alla maniera di Bernard Berenson, e comunque un libro di pennelli e non di bacilli. Pur sapendo della morte di peste di Ambrogio Lorenzetti, non sapevo quanto i secondi avessero influito sui primi. E invece un libro sul Gotico senese, la scuola pittorica magnificamente conservatrice fiorita fra Due e Quattrocento nella città del Palio, ecco che può palesare i rapporti arte-epidemia e diventare molto attuale. «Il fervore religioso ispirato dalle sofferenze di così tante persone inculcò una straordinaria dedizione alla Chiesa. Il clero era adesso il maggior committente...». Come non detto: l'attualità di Un punto di approdo è solo parziale, al contrario della peste nera il coronavirus non sta ispirando nessun nuovo fervore religioso, anzi ha portato alla luce un'apatia religiosa senza precedenti (come scrive Giorgio Agamben «l'ondata di panico che ha paralizzato il Paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita»). Inoltre, sono facile profeta, quando tutto sarà finito il clero ricomincerà a non commissionare, o a commissionare poco e male, esattamente come prima.
Dunque più che a scoprire somiglianze questo libro serve a trovare differenze, a capire quanto siamo cambiati. «I senesi, come tutti nell'Europa medievale cristiana, soffrivano pensando che le malattie venissero da Dio. Consideravano la Peste Nera come una prova della loro colpa». Il Papa, nel discorso pronunciato prima dell'ultima benedizione urbi et orbi, ci ha provato a riallacciarsi all'antico millenarismo, ma nonostante la scenografia apocalittica non gli è venuta benissimo. Ha accennato all'avidità di guadagno, un classico del pauperismo, e poi al pianeta malato, uno standard dell'ambientalismo, però senza la necessaria convinzione e comunque il pubblico a casa ha continuato a dare la colpa ai cinesi o agli americani, ai sovranisti o ai globalisti... A sé stessi, mai.
A un certo punto Matar allarga lo sguardo dai senesi ai pittori dei secoli successivi, anche loro alle prese con la peste che tornava a percuotere periodicamente l'Italia. Michelangelo, che nel 1528 aveva visto morire di questo morbo il fratello Buonarroto, scrive al Vasari: «E non nasceva pensiero in me che non vi fussi scolpita la morte». Tintoretto realizza i teleri della Scuola di San Rocco, patrono degli appestati, sulla spinta dell'epidemia che nel 1575 aveva sterminato i veneziani. Van Dyck si trova a Palermo nel momento sbagliato, durante la peste del 1624, e dipinge una Madonna del Rosario con l'angioletto che si tura il naso per non sentire la puzza dei cadaveri. Per secoli i grandi artisti hanno trasformato il piombo in oro, il terribile in sublime. Ed è una tradizione che oggi ritorna (sebbene al di fuori dell'arte sacra) grazie a Massimiliano Alioto, Vanni Cuoghi, Giuseppe Modica, Giorgio Ortona, Tommaso Ottieri, eccellenti pittori che hanno scelto il presente contagio come soggetto dei loro ultimi quadri. Che purtroppo ho potuto vedere solo su internet. E non basta, e non va bene, come insegna Matar: leggendo Un punto di approdo si capisce la pochezza dei virtual tour, dell'arte sui social, della pittura su schermo... «Dopo un primo giro elettrizzato e in qualche modo confuso della Pinacoteca, ho dedicato i giorni successivi perlopiù alla Madonna dei francescani».
Lo scrittore anglo-libico, che a Siena ha soggiornato per l'appunto un mese, il contrario del mordi-e-fuggi turistico, fa rimare bellezza con lentezza. È un metodo messo a punto a Londra: «Cominciai ad andare ogni giorno alla National Gallery e a sostare davanti a un certo dipinto per l'intervallo del pranzo. Ogni settimana sceglievo un quadro diverso.
Oggi continuo a guardare i quadri allo stesso modo, uno alla volta. Ne traggo grande beneficio. E nel frattempo quel quadro diventa un luogo mentale e fisico della mia vita». Matar mette la voglia matta di precipitarsi nel più vicino museo. Ma non si può: c'è la peste.
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