Nel tiepidume generale che domina il mondo dei libri, Julius Evola (1898-1974) è uno di quegli autori ancora capaci di suscitare automaticamente energiche reazioni, generalmente di ripulsa sdegnata, più raramente di adorazione incondizionata. Nel primo caso, ovviamente, scatta la sindrome antifascista contro il «Barone Nero», bieco razzista e feroce antisemita che, però, non fu mai iscritto al P.N.F. e che si vide chiudere dal Regime il periodico La Torre, da lui ideato e diretto. Nel secondo caso, invece, entra in gioco il sentimento di appartenenza al magico mondo della Tradizione, che vede con sospetto tutto quanto abbia anche un vago sentore di moderno, a cominciare dalle innovazioni successive all'Età della Pietra, mondo che ha trovato nell'autore di Rivolta contro il mondo moderno il proprio Maestro.
Per entrambi gli schieramenti, quindi, sarà una sgradevole sorpresa il nuovo volume di Evola curato dall'eccellente e instancabile Gianfranco de Turris: Teoria e Pratica dell'Arte d'Avanguardia (Edizioni Mediterranee, pagg. 474, euro 45, verrà presentato il 7 marzo, alle 18, alla Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea di Roma), dove, per chi non lo sapesse, si scopre che il super-reazionario Evola fu anche un apprezzato - e, oggi, quotato - pittore e poeta dadaista, le cui tele sono esposte anche nella Galleria d'Arte Moderna di Roma e ai Civici Musei d'Arte e Storia di Brescia, oltre a essere contese da molti collezionisti d'arte e di libri.
Che cosa abbia a che vedere l'arte astratta con la Tradizione e, più in generale, con l'Individuo Assoluto teorizzato da Evola, ce lo spiega lui stesso, in quella specie di autobiografia spirituale che è Il Cammino del Cinabro, dove interpreta il dadaismo come «l'autodissolversi dell'arte, in un superiore stato di libertà», che gli permette di «denunciare la aspiritualità di tutto ciò che viene abitualmente considerato come spirituale, dei valori dell'umanità e della spontaneità creatrice non meno che delle formule romantiche e tragiche dell'arte».
Il volume è curato, oltre che da de Turris, responsabile generale delle «Opere di Julius Evola», anche dal critico Carlo Fabrizio Carli che firma l'introduzione e da altri importanti studiosi che si sono occupati delle varie sezioni, da quella dei Manifesti e scritti critici, a quella della Poesia, delle Lettere e della Pittura. Viene così coperta tutta l'attività artistica di Evola, sostanzialmente limitata al periodo 1916-1921, anche se negli anni successivi tornò a scrivere di arte e, negli anni Sessanta e Settanta, addirittura a riprendere in mano i pennelli, per la gioia dei numerosi falsari, o aspiranti tali, che sembrano essersi moltiplicati negli ultimi anni. Pare dunque che, almeno nell'ambito artistico, stia diradandosi la condanna aprioristica e inappellabile che pende ancora sul capo dell'Evola saggista e scrittore, considerato infrequentabile dalla nostra intellighenzia anche, e soprattutto, in assenza di qualsiasi approfondimento critico. Forse le cose potrebbero cambiare se, con un atto di buona volontà, si cominciasse a considerare il teorico di Cavalcare la tigre come il massimo esponente di una concezione assoluta della massima libertà possibile per un individuo, libertà totale e incondizionata che riecheggia anche nelle pagine sull'Arte astratta (1920): «Sento l'arte come una elaborazione disinteressata, posta da una coscienza superiore dell'individuo, trascendente (...).
L'arte modernissima è la più vicina, sebbene non ne abbia quasi avuta coscienza, a qualcosa di spirituale. L'arte, forse, comincia oggi».Per Evola, invece, finì proprio allora, quasi un secolo fa, anche se la sua eco risuona oggi più chiara, libera e limpida di allora.
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