Ma certo che no. Il documentario Amanda Knox che Netflix metterà online venerdì 30 non ha alcuna intenzione di svelare chissà quali verità o di sovvertire il senso di una assoluzione «senza se e senza ma» che ha chiuso il caso Meredith Kercher. «Non è una vicenda che abbiamo scoperto noi né ci sono retroscena inquisitori» dicono i due registi, il barbuto Rod Blackhurst e il pacioso Brian McGinn di passaggio a Milano sull'onda dell'interesse che accompagna in mezzo mondo questa vicenda.
Qui in Italia la ricordano tutti, se non altro grazie all'insistenza di alcuni talk show che per anni, dal novembre 2007, hanno sfruculiato ogni più piccolo dettaglio di un crimine orribile quanto inspiegabile. «Ma non credete che negli Stati Uniti la tv si sia dedicata a questo evento con meno morbosità», dicono loro che, prima di creare il documentario, hanno passato in rassegna tutto il florilegio televisivo: «Siamo rimasti colpiti dall'attenzione che Porta a Porta ha dedicato ai particolari di questo assassinio». Insomma, come è andata è ben noto: la sera del primo novembre 2007 la studentessa inglese Meredith Kercher viene sgozzata nell'appartamento di Perugia che condivideva con altri studenti. La notizia esordì con risonanza non esagerata sui grandi media italiani ma in breve si trasformò nel feuilleton più seguito sulla stampa con conseguente alluvione di indagini, reportage e analisi in prima serata. Alla fine, dopo l'assoluzione senza appello di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, l'unica condanna definitiva rimane sulle spalle di Rudy Guede con sedici abbondanti anni di detenzione.
Ma, dopo il film tv di Robert Dornhelm del 2011 (Amanda Knox: Murder on Trial in Italy, anche ricordato come The Amanda Knox Story) per il canale americano Lifetime, questo è comunque il primo documentario declinato con un linguaggio globale perché, ahimé, questo intrigo multinazionale di cronaca nera e rosa rappresenta un copione quasi perfetto. «Non è stata soltanto una vicenda sanguinosa ma è una piattaforma nella quale si incrociano i rapporti tra l'Italia, gli Usa e la Gran Bretagna, l'utilizzo sempre più studiato della televisione e lo stesso trattamento dei talk show», spiega la coppia di registi che non è proprio di primo pelo visto che Blackhurst ha vinto un Tribeca Audience Award e McGinn risponde con un Ida Award. Sono rimasti entrambi colpiti dalla clamorosa e pure imprevedibile risonanza di quella che è solo una delle tante questioni irrisolte nell'antologia mondiale degli omicidi. «Ci ha colpito molto la personalità di Amanda Knox», spiegano loro, che nel documentario (tra l'altro montato con un ritmo irresistibile) indagano senza malizia nei risvolti più nascosti, e anche cupi, di questa americana nata a West Seattle nel 1987, diventata giocoforza famosa in Italia (dove però - sarà un caso? - non c'è neppure una pagina Wikipedia su di lei) e pure negli Stati Uniti. Ragazza grunge, si direbbe.
Qualche dichiarazione lo conferma, come l'iniziale e un po' inquietante «c'è chi dice che sono innocente e chi dice che sono colpevole. Se sono colpevole, sono una psicopatica travestita da agnellino. Ma se sono innocente, sono te». È lei la vera attrazione di questo documentario, che ha più incidenza psicologica che inquisitoria. Amanda Knox non è una docuinchiesta su di un omicidio per molti risolto solo in parte.
È il viaggio nella dark side di una ragazza americana invecchiata troppo presto e dei suoi compagni di tragica avventura (l'evanescente e poco abile con l'inglese Raffaele Sollecito su tutti) oltre che nella caparbietà del pm Giuliano Mignini che la definisce «anarcoide e manipolatrice» ma poi, con l'assoluzione in mano, si accontenta di un rassegnato «se sono colpevoli, ricordo che oltre la vita c'è un processo senza appelli o revisioni». Alla fine un documentario senza pelosità da rotocalco che fa vedere Amanda Knox come l'abbiamo quasi sempre vista noi durante il processo: dietro il parabrezza opaco di un mistero senza soluzione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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