Il romanzo francese è tornato in salute, dopo anni di letargo: i due Nobel a Le Clézio e a Modiano, e poi ancora di più i casi di Houellebecq, Carrère, Lemaitre, lo testimoniano. Ora a questi nomi aggiungerei quello di Jean-Paul Dubois, sino a qui poco noto al pubblico italiano, di cui è appena uscito il romanzo Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo (Ponte alle Grazie, pagg. 237, euro 16), vincitore del Premio Goncourt dello scorso anno.
Dubois, nato nel 1950, tolosano, faccia espressiva che più francese non si potrebbe, è un giornalista che ha messo a frutto il suo mestiere nel romanzo. Giornalista e romanziere sono mestieri contigui, più di quello che generalmente si immagina. Dubois scrive un libro che affronta temi durissimi, che si innesta nella storia degli ultimi decenni, con una robusta e violenta tempra etica, dalla parte dei reietti e di una superiore giustizia, come è difficile trovare in tante sdolcinature dei romanzi italiani di oggi. L'unico che gli avvicinerei, per potenza espressiva, è Aurelio Picca, con il suo ultimo folgorante romanzo Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani).
Una parte del romanzo di Dubois si svolge in un carcere di Montreal, un'altra, intercalata alla prima, consiste nelle memorie del protagonista Paul Hansen tra le pareti della cella, mentre fa i conti con i suoi morti, i suoi fantasmi, senza mai alludere a ciò che lo ha portato lì. Il suo compagno di cella è una figura torreggiante nel romanzo, Patrick Norton, un gigante guascone un po' infantile che minaccia di aprire in due chiunque gli stia sulle palle, che con sconcertante flemma defeca davanti a lui continuando ad almanaccare sui temi che gli piacciono, le moto Harley Davidson in primis, e poi la squadra di hockey su ghiaccio del Canada, che ha vinto il campionato del mondo 24 volte e 7 volte l'oro olimpico e ha sconfitto la Danimarca, dove ha origine la famiglia di Hansen, 49 a 0. E interviene polemico sul cibo del carcere, pollo color marrone, e anche su argomenti più grandi di lui, come i mutui subprime grazie ai quali tuona che sono stati sgraffignati ai pensionati americani 2000 miliardi di dollari. Un registro diverso usa Dubois per raccontarci, poco alla volta, le diverse fasi della vita del protagonista: la figura del padre, il pastore protestante Johannes Hansen, quella della madre francese, Anna Margerit, i primi contrasti tre l'uomo di fede, che difende la sua fede anche mentre la sta perdendo, e la disinibita proprietaria di una sala cinematografica dove l'onda del Sessantotto porta film scandalosi, soprattutto se proiettati dalla moglie di un pastore. La famiglia va in pezzi, e Paul segue il padre che si trasferisce in Canada, in una cittadina mineraria impestata dall'amianto. Poco dopo va in pezzi anche la vita del pastore, diventato all'improvviso scommettitore all'ippodromo, giocatore compulsivo ai dadi, alla roulette, al black jack, che preleva grosse somme dal budget della sua chiesa, conoscendo insieme il licenziamento, il disonore e la morte, Ma il riscatto del padre, per il protagonista, è nelle parole che pronuncia nell'ultimo sermone, una frase che ripeteva spesso per attenuare con un soffio di umanità le colpe di chiunque: «Non stiamo tutti al mondo nello stesso modo». Non tutti possiamo contare su un destino benevolo, Paul, costretto in carcere a parlare con i suoi fantasmi, lo sa. Ha lavorato tanti anni come addetto alla manutenzione di un grande condominio con parco e piscina, prodigandosi per il buon funzionamento di tutto, aiutando in ogni modo i condomini, soprattutto i più anziani e soli. Ha trovato finalmente una compagna, una pilota di idrovolante, Winona Mapachee, mezza irlandese e mezza algonkina, che dall'Irlanda trae allegria, felicità, schiettezza, e dalla sua tribù la capacità di integrarsi con l'invisibile e l'energia della natura. Insieme adottano la lupacchiotta Nouk, ma basta niente che tutto gli viene portato via. Il vecchio buon Presidente del condominio viene sostituito da uno nuovo, una carogna di arrogante arrivista. Un incidente aereo lo priverà di Winona , e una malattia di Nouk. Completamente solo, in carcere espia un dolore, non una colpa. Di fronte allo psicologo che vorrebbe chiedere per lui una diminuzione di pena, non accetta di dirsi pentito, neppure per finta. Si sente vittima, non colpevole.
Dubois lascia il lettore in sospeso prima di raccontare quale condanna Paul Hansen sta scontando.
Quando lo saprà, capirà che quest'uomo qualunque, sfortunato, senza apparenti qualità, ha saputo trovare in sé l'eroismo naturale che spinge i giusti contro il sopruso, l'insolenza, la prevaricazione, in una sorta di liberazione catartica, cui non si resiste a partecipare quasi con un applauso.
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