Fumaroli e la crisi (ir)reversibile della cultura

I n un mondo letterario in cui ci si sente stranieri pur parlando la stessa lingua non è sbagliato, in un freddo sabato di fine novembre, prendere la macchina e, in compagnia di un amico, raggiungere Pordenone per ascoltare, finché è possibile, l'ultima, grande voce dell'Europa - di quello che l'Europa è stata nella storia, di quello che ha significato, di quello che continua a significare pur in un tempo come questo, dominato dalla confusione e dalla dimenticanza.È accaduto a me, sabato scorso. A Pordenone Vittorio Sgarbi consegnava il Premio Cavallini (intitolato, da oggi, anche a Rina Cavallini, madre di Elisabetta e Vittorio) a tre grandi personaggi della cultura. Uno di loro era la ragione del mio viaggio: Marc Fumaroli, accademico di Francia, membro del Collège, autore di saggi fra arte e letteratura tra i più belli ed eruditi del nostro tempo (tutti editi in Italia da Adelphi) oltre che del celebre saggio polemico Lo Stato Culturale. Intervistato da Nuccio Ordine sui motivi che hanno guidato il lavoro di una vita, Fumaroli ha tracciato un profilo culturale della storia europea, partendo dalla Chiesa medievale, promotrice delle lettere, delle arti e della scienza, e proseguendo lungo i secoli di un'Europa che - pur ormai politicamente e religiosamente divisa - mantenne viva, si può dire fino alla seconda guerra mondiale, la «repubblica delle lettere e delle arti», una comunità internazionale dove il sapere, l'amore della pace e della bellezza e l'amicizia che ne scaturì seppero conservare il senso di queste cose fuori dai maneggi della storia e della finanza. Oggi, dice Fumaroli, questa «repubblica» è in difficoltà. Parole come «cultura» e «arte», pur venerate, sono vittime di un equivoco: da un lato si confonde la cultura con il divertimento di massa (che ha anch'esso i suoi vescovi), dall'altro l'arte («la capacità di produrre oggetti che fanno parte del mondo ma che, al tempo stesso, ci pongono in rapporto con qualcosa che sta oltre il visibile e il sensibile») si confonde con un investimento, l'artista con una star della borsa. In un saggio su Bacon Fumaroli cita una frase di Deleuze che riassume lo strazio dell'artista odierno: «Il pittore è un macellaio, certo, ma egli sta nella sua macelleria come in una chiesa, con la carne macellata come Crocefisso».

Questo è il nostro tempo, nel quale scrittori, artisti, editori e giornalisti operano: il tempo di una sacralità presente ma non più riconosciuta, di una madre chiusa in una stanza di cui si è smarrita la chiave. Fumaroli lo sa ancora, lo sapeva Ivan Illich. Occorre non dimenticare.

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