"Grazie alla mia "Madina" metto il corpo al centro di tutto"

Il compositore Fabio Vacchi parla della prima mondiale alla Scala con Roberto Bolle protagonista. L'opera parla di una kamikaze cecena che si libera dalla cintura

"Grazie alla mia "Madina" metto il corpo al centro di tutto"

Fino al 14 ottobre al Teatro alla Scala va in scena una prima mondiale: Madina, un lavoro di teatro e danza del compositore Fabio Vacchi, tra gli italiani più noti internazionalmente. Il libretto è di Emmanuelle de Villepin che si è rifatta al proprio romanzo La ragazza che non voleva morire. Madina è una fanciulla cecena destinata a un atto kamikaze ma si libererà dalla cintura esplosiva, con buona pace dello zio Kamzan, capo dei ribelli wahabiti, e con la benedizione del nonno Sultan, della zia Olga e di un giornalista francese. Fra gli interpreti chiave, Roberto Bolle.

Maestro Vacchi, dopo gli accadimenti in Afghanistan, sente questa sua creatura in modo diverso?

«Premetto che su questo tema avevo già scritto Il diario dello sdegno, proprio per la Scala e per Muti, e Tagebuch der Empörung per il Gewandhaus e Chailly. Ero scioccato dall'attentato alle Torri Gemelle, ma anche dalla guerra assurda contro l'Afghanistan che ne scaturì, e ho riversato la mia indignazione in quei due brani orchestrali. Ho scritto Madina prima che l'orrore afghano salisse alla ribalta. Ma la spirale di violenza tra occupanti e occupati, stati potenti che hanno creato i talebani e oscurantismo religioso che li ha alimentati, era ed è sotto gli occhi di tutti».

Fabio Vacchi

Quale è il punto di Madina che la convince in modo assoluto?

«L'idea di mettere il corpo al centro di tutto, della musica, della danza, della vicenda. Perché siamo corpi che richiedono rispetto, sempre».

Con Madina entra in campo il coreografo, Mauro Bigonzetti. Ma in generale, come lavora con i registi? Vanno sorvegliati a vista affinché non stravolgano la produzione?

«È giusto che i registi rileggano in modo personale le opere, ma sempre rispettandone la sostanza, che sia del passato o che sia di oggi. Bigonzetti e Cerri sono entrati nelle viscere della mia musica e della mia implorazione a noi tutti, perché non ci voltiamo più dall'altra parte, perché non dormiamo sereni sulla sofferenza degli altri».

Che dire di Roberto Bolle? Ha centrato il personaggio?

«Bolle si è reinventato. E questo è stato un regalo meraviglioso per me. Ha messo la sua eccellenza classica, il suo carisma, la sua notorietà al servizio della mia musica e del libretto, ma soprattutto al servizio di una donna violentata che urla aiuto come tutte le donne violentate del mondo».

E coi direttori d'orchestra come va? Dirige Michele Gamba, un millennial. Cambia l'approccio alla musica contemporanea a seconda dell'anagrafe del direttore?

«Non credo in nessuna barriera, neppure generazionale. I muri vanno abbattuti. Abbado, se fosse ancora tra noi, avrebbe la testa di un millennial, come Chailly che, oltre a essere un grandissimo direttore che tutto il mondo ci invidia, ha il coraggio di lanciarsi sempre in ciò in cui crede. Gamba è tecnicamente straordinario, ha una musicalità sbalorditiva, ma è anche puro, ama ciò che fa, e si è dedicato anima e corpo a Madina. Certo, c'è anche empatia sui valori. E le due anime, l'aspetto estetico e l'aspetto etico, la competenza e la disponibilità, per me sono inscindibili».

Ha lavorato più volte con Ermanno Olmi. Ci racconti un aneddoto.

«Ermanno era un angelo visionario, con la capacità di essere nuovo e spiazzante. La sua modernità era radicale, ma viva nella sostanza, senza affiorare come gesto enfatico. Una sera, a Salisburgo, ospiti di Abbado ed entrambi impegnati al Festival, ci perdemmo in città, e passammo mezz'ora a ridere, come bambini, perché non riuscivamo a ritrovare la strada».

Quale è il compositore del passato che più di tutti non smette di impressionarla?

«Johann Sebastian Bach. Un gigante, che piegava una scrittura rigorosa e di altissima manifattura artistica all'espressività, alla mescolanza di stile italiano, tedesco, francese, al sacro e al profano, al lirismo, ai colori barocchi».

Lei vuole arrivare all'ascoltatore. Tanti suoi colleghi scrivono come se non vi fosse un consumatore finale.

«La musica colta deve rimanere se stessa: complessa, raffinata,

spesso non facile, aperta al nuovo. Ma non può ignorare la comunicazione, l'emotività, l'affettività. Certo è più facile scivolare nel criptico insensato o nel banale ammiccante. Ma il pubblico c'è, capisce e ti ricambia».

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