Garibaldi fu ferito, ma non da solo. Quel che la canzonetta risorgimentale dimentica di menzionare si incarica di ricordarcelo Arrigo Petacco, nel saggio romanzesco "Ho sparato a Garibaldi" (Mondadori, pagg. 192, euro 19) scritto con la collaborazione del giornalista Marco Ferrari.
Dunque, l'altro protagonista dei fatti d'Aspromonte era Luigi Ferrari, allora luogotenente del quarto reggimento bersaglieri, al comando del colonnello Emilio Pallavicini.Il guaio del povero Ferrari, patriota due volte decorato con medaglia d'argento per atti precedenti di eroismo durante le guerre d'indipendenza, fu quello di trovarsi improvvisamente lassù, a faccia a faccia con l'Eroe dei due mondi. L'ordine era di fermare le camicie rosse anche a costo di uccidere, ma il povero bersagliere, cresciuto fin da ragazzo nel culto della patria, non si sentì di mirare al petto dell'Eroe: così - dopo un attimo di angosciosa indecisione colto quasi fotograficamente dai narratori - puntò alle gambe.
Ferì il generale di striscio all'anca sinistra, mentre il secondo proiettile, quello leggendario, centrò l'attaccatura del piede destro. Fin qui, siamo nell'ortodossia patriottica. Per nulla noto è invece quel che succede dopo: di fronte al sacrilego ferimento del suo capo, un giovane garibaldino si vendica immediatamente sul luogotenente Ferrari: gli spara centrandogli anch'egli una gamba, però la sinistra. È così che si svolge la scena: i due feriti, l'Eroe e il suo oscuro cecchino, si contorcono nell'erba, mentre l'Aspromonte «che sapeva di ginestra e mirto, di sudore e sangue», da quel momento passa alla storia.
Qui però, i destini dei due si biforcano: Garibaldi vola verso la leggenda; Ferrari precipita dolorosamente nel disonore. La vita, si sa, è cruda e ingiusta. Mentre Garibaldi viene amorosamente curato dai migliori medici chiamati a consulto anche dall'estero, e pur pagando il prezzo della lunga immobilità mantiene l'integrità fisica, all'oscuro Luigi Ferrari tocca la sorte comune dei soldatini d'allora: amputazione del piede sul campo, con anestesia sommaria, e congedo senza troppi ringraziamenti. Una volta tornato zoppicante nel paesello natìo di Castelnuovo Magra lo aspetteranno una protesi di legno da allacciarsi ogni mattina, vacue passeggiate col bastone da pensionato, e soprattutto l'ignominioso segreto d'essere stato responsabile del ferimento di Garibaldi.
Ormai è vietato parlarne male, soprattutto nel Carrarese anarchico e mazziniano; figuriamoci poi sparargli una schioppettata. Per un po' nessuno sospetta nulla, e tutto quello che Luigi Ferrari deve sopportare, quando il Regno gli conferisce la medaglia d'oro al valore militare, è la motivazione discretamente allusiva («Adempì all'amaro compito di comunque fermare il generale Garibaldi in marcia verso Roma, Aspromonte 1862») più qualche fischio della folla durante la cerimonia. Ma poi il vergognoso segreto prende a crescere dentro di lui come se, anziché alla gamba amputata, l'infezione cancrenosa gli si fosse attaccata al cervello. Finché l'irreparabile accade. Complice qualche rancore passato e i fumi d'osteria, il vecchio compagno d'armi Giuseppe Tognoni spiffera ai quattro venti la verità. Scatta una specie di fatwa garibaldina contro Ferrari, senza risparmiarne i famigliari, finché, dopo essere stato spinto nel fango senza più la sua gamba di legno, lui si dimette dalla carica di sindaco del paese. Si rifugia alla Spezia e laggiù, in semi incognito, trova la sua ultima soddisfazione, completando i lavori difensivi dell'arsenale.
Poi, l'amaro crepuscolo. Ho sparato a Garibaldi non è libro da leggersi come una curiosità storica dissepolta dai fondi d'archivio. Pur essendo puntigliosamente documentato, incluso l'armamento in dotazione al bersagliere più sfortunato del Risorgimento - carabina da 4 chili e sciabola-baionetta di lama piatta a due tagli lunga mezzo metro - il racconto prende forza narrativa nei momenti chiave. Sono i racconti delle precedenti imprese militari di Ferrari: la battaglia di Goito, la presa di Peschiera, l'incolpevole disfatta di Custoza, la missione segreta nel Ducato di Modena, l'inferno sanguinoso sul Colle di San Martino: tutte cose cancellate da quello che avverrà poi sull'Aspromonte. La predizione ironica di Garibaldi, subito dopo il ferimento, suona già da vergognoso presagio: «Vi daranno una medaglia per questo, la monarchia vi renderà merito di avermi fermato». Seguono la visita del bersagliere già azzoppato all'Eroe ancora convalescente, che non lo riceve ma solo dopo molte ore di attesa gli concede un simbolico saluto militare, dalla finestra.
La conta degli amori mancati nella sua solitudine di soldato, primo fra tutti quello non ricambiato per la Patria. La concessione di una tardiva rettifica della motivazione per la medaglia d'oro, in modo da nascondere pudicamente la faccenda del ferimento di Garibaldi.
Il finale è doloroso come la vita: una nuova infezione al moncherino, il delirio, la frase d'addio sul letto di morte: «Voglio raggiungere Garibaldi così come l'ho lasciato in Sicilia». E la beffa della canzonetta bugiarda in lode a «Garibaldi che comanda i bersaglier». Ma forse, in quel ritornello popolare, c'è l'ombra di una riconciliazione postuma tra l'Eroe e il Signor Nessuno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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