La leggenda di Owens finalmente celebrata

Arriva nelle sale "Race - Il colore della vittoria", di Stephen Hopkins. Con Stephan James, Jeremy Irons, Amanda Crew, Carice van Houten

La leggenda di Owens finalmente celebrata

Strano, ma vero. Una figura leggendaria, dal punto di vista sportivo, come quella di Jesse Owens, vincitore di quattro medaglie d'oro alle Olimpiadi di Berlino del '36, sotto gli occhi di Hitler, non è mai stata celebrata al cinema. Arriva, quindi, questo biopic a porre rimedio a questa singolare dimenticanza, con il benestare delle figlie dell'indimenticabile velocista nero, detentore anche di vari record del mondo su 100, 200 metri e salto in lungo. Diciamo che il risultato, vista la lunga attesa di ottant'anni, poteva essere migliore di questa storia che non si discosta mai dai soliti luoghi comuni, pur mettendo in luce alcuni episodi poco conosciuti del campione olimpico.

Jesse è un ragazzo di colore che, negli anni Trenta, quando il razzismo era vivo e vegeto negli Usa, riesce ad entrare, non senza difficoltà, nella Ohio University, diventando il bersaglio di atleti bianchi che mal lo sopportano. La sua velocità, però, viene notata dal coach di atletica Larry Snyder che, pian piano, (si fa per dire, visto come corre) lo trasforma in un fenomeno capace di battere quattro record del mondo, in meno di un'ora, pur infortunato. Arrivano così i famosi giochi Olimpici del 1936, quelli voluti per mostrare al mondo la superiorità razziale della Germania e disputatisi dopo un dibattito acceso che aveva spaccato in due il Comitato Olimpico americano, diviso tra la partecipazione (più che altro, per motivi economici del costruttore e portavoce Avery Brundage) e il boicottaggio (a tutela anche degli atleti ebrei).

Come sia andata è, ormai, storia.Stephan James è un Owens credibilissimo, capace di tirar fuori un ritratto umano che piacerà anche alle signore al seguito.

Naturalmente, nel film c'è anche il famoso episodio di Hitler che si rifiutò di dargli la mano, anche se Owens lo aveva sempre smentito affermando che, in realtà, il saluto c'era stato. E scoprirete come in patria, il presidente Roosevelt evitò di mandargli anche solo un telegramma di complimenti. Piccoli dolori che non hanno offuscato la sua grandezza sportiva.

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