L'eros si è fatto di marmo negli scatti di Peppe Leone

Il fotografo siciliano trasforma il barocco di Modica in qualcosa di sensuale, pulsante e vivissimo

L'eros si è fatto di marmo negli scatti di Peppe Leone

L'occhio fotografico di Giuseppe Leone detto Peppe è immaginale. Il suo segno il contrassegno plastico tutto suo del bianco e nero raccolto in un clic è uno scavo nell'imago, dove ciò che si rappresenta si percepisce ben oltre l'immaginario. Porta la notte nel giorno e viceversa. Questo fa Leone. Stana da ogni anfratto le più remote meraviglie della sua contea la Contea di Modica e ravviva di lusinga teatrale sia l'assolata evanescenza del mezzodì, sia l'addipanarsi dal buio dell'orgia tutta di pietra bianca.

Ecco, dunque, l'affollarsi crosciante degli orchi, dei santi, dei ceffi zoomorfi, delle ghirlande ornamentali e infine dei baffuti tipacci zannuti che sono occhialuti, perfino. Tutti consanguinei, nell'aggrovigliarsi della paurosa scultura barocca, degli ignari passanti in transito su per i lastricati e le scalinate, raccolti a sparsi grappoli tra i palazzi dai portoni di legno cariato, al riparo se mai piovesse di panciuti balconi da sotto i quali fanno cucù bizzarri Baphomet prodighi di ogni espressione: perplessa, beffarda, civettuola, arcigna o lussuriosa.

Dalla pietra porosa colta nell'attimo dall'occhio di Leone ne viene fuori, infatti, una femmina ignuda, luminescente aggrappata alla sua stessa natura per darsi piacere nella eco di flebili gemiti. E Peppe che sa il fatto suo, nel suo album fotografico, le affianca una splendida sventola in carne, ossa e giusto tocco a far giorno della notte e viceversa come oggi solo il grande fumetto dei Guido Crepax e degli Hugo Pratt, fuor di scalpello e dunque fuor di pietra, pagina dopo pagina sa evocare. Il turgore dei seni è tema ricorrente nella sequenza catturata da Leone nelle sue incursioni e già è impudico immaginare nei secoli l'occhieggiare dei paesani, tutti ingravidabalconi, a spasso tra Ibla, Scicli e Modica dove carezzare un muro istoriato di movenze e allusioni è come accarezzare l'illusione di un amplesso. Come quel santo che sa d'essere tale solo dormendo tra due monache nude, così solo sognando tra le rugose facciate iblee si fa esperienza dell'invisibile. E Peppe Leone, questo fa. Al modo dello sciamano evoca e trattiene nel visibile la sua incredibile messa a fuoco ciò che dimora nel nascondimento del chiaroscuro, delle smorfie trattenute e delle acerbe rampogne sempre in agguato agli angoli delle strade.

Instancabile camminatore, impugna la macchina fotografica al modo proprio del rabdomante col suo bastone e in ogni luogo in virtù del genio ne fa una trovatura. Come le muse, o come le furie, i suoi clic, suggellano sui fuochi fatui di ogni divenire la grazia dell'imaginale fosse pure sul muschio inaridito e fanno romanzo del gelo invernale, del fogliame d'autunno, dei fiori appassiti e del sole per far posto alla favola dell'istante perfetto. Con un'occhiata lui sa il come e il dove del racconto dal mondo di corpi sottili, il mundus immaginalis di Ragusa in perenne fatica ermeneutica. Il rocambolesco apparecchiarsi della pietra barocca è, per lui, un grande vantaggio: una partitura, comunque un compiuto canovaccio del teatro comico musicale. L'intera città svanisce tra i rintocchi della mezzanotte e però in quelle sue fotografie resta l'odore, il suono e l'immemore presente della calura, quando è estate, e quello del vento, quando è inverno, con cui l'altro mondo prende possesso di tutto per farsi genius loci. Gli abitanti della Contea, ebbene sì, sono solo loro. E Peppe Leone lo sa bene. Sono i bambini di pietra che si abbracciano ridendo, il chitarrista, l'uomo col tamburo, quello col paniere e quello con la botticella sulla spalla. Tutti quanti scheggiati e usurati dall'accerchiamento effimero della rasposa solidità.

Se mai Leone principierà nell'opera, come è stato già sperimentato sulle persone, di fare ogni giorno uno stesso scatto sullo stesso soggetto un mascherone, un putto, un qualunque zampognaro inanimato di certo, sfogliandone le foto a cento, a mille e millanta ancora, a tutta velocità, ne caverebbe il tema di una smania sempre mutevole, giammai immobile per come ci si aspetta invece dalla muratura. Già in una sola posa Leone coglie l'immaginale, figurarsi nella reiterazione quotidiana dello scatto cosa potrebbe strapparne, tanto quel barocco di bianca biacca è vivo, capriccioso, mutolo e carnale. E solo il suo occhio fotografico fa fronteggiare la fissità romantica dell'arredo urbano in una messa in scena tutta romanzesca.

È l'arte speciale, quella di Peppe, di chi sa taliare. Questa parola della lingua siciliana è un verbo ha radice nell'arabo tà-lià, ovvero l'avanguardia guerriera saracena incaricata di fare perlustrazioni nei territori sconosciuti per poi riferire agli strateghi. Una radice, dunque, che deriva dallo smagliante anno Mille di Sicilia dove la perla d'Islam patria di emiri, poeti e geografi era vetrina e vetta di vittoria e bellezza. Un codice anzi, uno stratagemma, questo del taliare che ancora permane nella cortese tenzone d'amore propria di narrazione, cinematografia e vita quotidiana: «tà-lia se mi tà-lia», ossia, «guarda se mi guarda», dicono alle amiche le donne fintamente disattente e ritrose per farsi dare posizione, calore d'amore e tensione dei corteggiatori allocati nella ragionevole distanza di una guardata. E Peppe Leone artista, ancorché fotografo questo fa: guarda nell'istante perfetto di una guardata. E lo fa col doppio codice della destinazione di sguardo e di chi guarda. Come l'amore dell'amante per l'amato.

Al modo di Pietro Germi, se c'è l'azione del ciak, al modo di Ibn Hamdis, il poeta netino, se c'è il canto immaginale di poesia, e al modo di Peppe Leone nel virtuosismo estremo del clic. Quello per cui l'attimo è il bello.

Ps. L'immaginale, nel senso di Henry Corbin.

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