"L'illettore", un'odissea fra le parole alla deriva

Che cosa accade a un uomo che perde il bene della lettura? Affoga in un mare di ricordi

"L'illettore", un'odissea fra le parole alla deriva

Il servo d'orchestra affetto da «analfabetismo musicale», «rimasto vita natural durante un musicista mancato». Il prestidigitatore che di sé dice: «sono sull'orlo di una bancarotta dell'animo» e, soprattutto, «illusione dopo illusione ho dilapidato il mio io». Il «segretario privato ad interim» di un «libero erudito» con la fama di «tanatosofo anarcoide» colpito, oltre che da normale senescenza, da mania di grandezza e che infatti lo chiama «il mio Eckermann», ergendosi a Goethe.

Questi tre tristi figuri, fino ad ora, ci aveva regalato in italiano la bontà e la pazienza di Anna Ruchat, traduttrice, fra molti altri, di Hermann Burger, ovvero della parete più ripida e del ghiacciaio più agghiacciante della letteratura elvetica. Tre fantasmi da castello kafkiano, tre uomini in barca con destinazione la böckliniana isola dei morti, tre moschettieri senza alcuna lode e con tanta infamia. Insomma, tre fuoriclasse dell'assurdo. Ma adesso è in arrivo il quarto, il più strutturato nella sua autobiografica decostruzione, il più drammatico, il più solo, il più maledetto. L'illettore l'ha battezzato la signora Ruchat, e anche per questo potremmo ora, a lettura ultimata, attribuire a lei il ruolo della nobile vestale alla quale l'innominato in questione si rivolge con la sua amara «confessione».

Se ad August Schramm, il servo d'orchestra, mancava la musica, se a Grazio Diabelli alias Angelo Masturbanni alias Santambrogio, alias Wendolin Mondelli, il mago smagato, mancava la voglia di scherzare ancora con il fuoco dell'inganno, se all'anonimo segretario-damo di compagnia mancava la partecipazione emotiva nei confronti del suo padrone, a questa carcassa d'uomo abbandonata sul ciglio della ardua e perigliosa strada del linguaggio manca tutto, manca cioè la capacità di leggere, e dunque di scrivere. Una sola la direzione che può prendere: à rebours, controcorrente lungo la linea del tempo, ricordando i libri divenutigli estranei da quando ha contratto il «morbus lexi», da quando l'«illessia» se l'è portato cerebralmente via, lasciandolo in una gattabuia-«arca», assistito da una governante-«druda». È quest'ultima, l'illetterata e quasi analfabeta assistente che espleta il minimo indispensabile e gradisce l'assenza dei libri degli scaffali, così può togliere più facilmente la polvere, a leggergli le lettere della principessa lontana, unica presenza-assenza che tiene in vita (si fa per dire) il Nostro.

L'illettore esce il 6 aprile da L'Orma Editore (pagg. 168, euro 16), ed è la perfetta prosecuzione, per il lettore italiano, di Servo d'orchestra, il volume del '90 targato Marcos y Marcos in cui abbiamo conosciuto i suoi tre compagni di sventura finiti sotto i dolenti polpastrelli di Hermann Burger. Il quale, nato a Burg, nel Cantone Argovia, il 10 luglio 1942, da un ispettore assicurativo e da un'insegnante di economia domestica, sposatosi nel '67 con Anne Marie Carrel, autore di una tesi di dottorato su Paul Celan, padre di Hermann e Matthias, redattore dell'Aargauer Tagblatt e collaboratore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, ebbe in dono non gradito, insieme a quello gradito di una prosa magmatica e cristallina insieme, il demone della depressione. «Iniziai a scrivere L'illettore nella casa di cura per la depressione del dottor Kielholz in Wilhelm-Klein-Straße a Basilea, dov'ero ricoverato nel padiglione Paul, circondato da gru, preziosi esemplari di alberi etichettati e pazienti illustri». Così inizia la postfazione a L'illettore. Vale a dire la seconda confessione, quella dell'autore. Un giorno, nella casa di cura Burger riceve una cartolina da una critica letteraria. Banale, ma capitale, il testo: «Saluti da Blankenburg» (Blankenburg è il titolo del libro nell'originale). E Burger spiega: «Mi girai e rigirai il messaggio tra le mani: quella cartolina conteneva una storia. Saluti da Blankenburg era un titolo, un programma, e decisi di rispondere con un tentativo di sopravvivenza in prosa, un correttivo alla realtà di iniezioni e flebo che regnava nella clinica».

Burger era, in quel periodo un autentico illettore: non riusciva più a leggere. Quindi che cosa fa? Scrive. Crea l'outsider-alter ego, gli costruisce intorno un mondo minimo, essenziale e consustanziale, una sorta di tana per la bestia inselvatichita, e s'impegna a ri-addomesticarlo tramite la terapia dell'ascolto della suddetta principessa. Riuscirà a guarirlo? Non sveleremo l'epilogo dell'avventura cerebrale dell'Illettore. Diremo soltanto che l'«Accantato», tormentato dall'«impotentia legendi», troverà nel dottor Zbären, il «bibliopata» alle dipendenze della celestiale signora, in Lo Stechlin di in Theodor Fontane e nel Saggio sull'origine del linguaggio di Johann Gottfried Herder tre validi alleati.

Soltanto allora, dopo l'illettore, entra in scena il lettore, cioè noi, compassionevoli e anche un po' inquietati dalle traversie del nostro simile, immerso in una dimensione sanatoriale che ricorda La montagna incantata di Thomas Mann, opera fra le più care a Burger. Del resto per tutti la depressione è dietro l'angolo.

Per tutti l'«illessia» è una minaccia, visto che «l'uomo, senza la pelle delle lettere, si sente un Neanderthal». Burger ci ha lasciato, il 28 febbraio 1989, dopo aver assunto un'overdose di farmaci, con una promessa e una minaccia: «Lo scrittore non dimentica mai, serba rancore in eterno». Come dargli torto?

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