La mamma è pazza, ma scrive benissimo

Nel seguito di "Casa di foglie" i deliri, altamente letterari, di una donna

Eccola, la catastrofe di Pelafina H. Lièvre al Three Attic Whalestoe Institute (Ohio). Avviene giusto un secolo dopo un'altra catastrofe, quella di Nietzsche a Torino. Il 12 gennaio 1989 il figlio di Pelafina, Johnny, riceve una lettera dal direttore del manicomio: «Come ha esplicitamente richiesto in occasione della sua ultima visita, le scrivo per informarla che le condizioni di sua madre sono nuovamente peggiorate». Pochi giorni prima, il 24 dicembre, la signora così si era rivolta a Johnny: «Ricorda: io ti sarò radice e ti sarò ombra sebbene il sole mi bruci le foglie. Spegnerò la tua sete e ti nutrirò di frutti sebbene il tempo mi rubi i semi. E quando sarai perso e di questa terra nulla riconoscerai io ti darò speranza. E sempre udirai la mia voce e sempre avrai il mio cuore, perché io ti sarò riparo e ti conforterò. E quando non sarò che polvere, perfino nella morte, io ti ricorderò». Non sembrano per nulla le parole di una pazza...

La signora Pelafina l'abbiamo incontrata nel novembre 2019 in Casa di foglie, il labirintico romanzo di Mark Z. Danielewski in cui il legame epistolare fra Johnny e la sua mamma reclusa era uno dei tanti sviluppi di una trama rizomatica che cresce non in verticale, ma in orizzontale, non verso l'alto, come un albero, ma al grado zero del terreno, come una distesa di muschio colonizzatore. Erano, quelle, fra le pagine più tradizionalmente drammatiche del libro. Raccontavano l'amore che lega madre e figlio. Ora, in Lettere da Whalestoe (come Casa di foglie edito da 66th and 2nd, pagg. 83, euro 12, traduzione di Leonardo Taiuti) entriamo in possesso di altre missive, come quella sopra citata del 24 dicembre 1988.

Scrive ad esempio Pelafina il 6 novembre dell'84: «La cosa peggiore è che questa mia visione fatta di schegge di luce si rifiuta di separarsi da me. Permane. Angoscia su angoscia. Non vi è abbastanza spazio nella stanza anche se di stanze ce ne sono eccome. Le crea. Stanze su stanze su centinaia di stanze ingombre di resti irriconoscibili». Strano, stanze che si moltiplicano come riflessi di specchi che si specchiano fra loro sono proprio il mostro che striscia e ingoia le persone in «La versione di Navidson», il film girato dal fotoreporter Will Navidson, cioè il versante orrorifico di Casa di foglie. Ci viene quindi il sospetto che Mark Z. Danielewski (ovvero - usiamo molto liberamente questa proposizione disgiuntiva - Johnny Truant) abbia tratto l'idea da qui, dal delirio di Pelafina. La quale, detto per inciso, è stata portata lì, al Three Attic Whalestoe Institute, dal marito Donnie, pilota di aereo morto in un incidente stradale nel luglio dell'81, perché tentò di uccidere (due volte, pare) il suo bambino («Dovrei vergognarmi per questo, per aver voluto proteggere mio figlio dal dolore di vivere?», scrive lei).

Eppure, che donna straordinaria doveva essere Pelafina! Ce ne parla, nell'Introduzione, l'uomo che ha salvato dal rogo le sue lettere, Walden D.

Wyrhta (quella D puntata fa pensare): «Il tempo, o un potere superiore, aveva fatto in modo che i suoi pensieri, nella loro prodigiosità, si disperdessero senza preavviso come uccelli spaventati da un colpo di fucile. Talvolta per fare ritorno. Talvolta no», scrive. E ancora: «in un certo senso riusciva a farti sentire come se ti avesse inventato lei». A questo punto, conoscendo Danielewski, non possiamo escluderlo.

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