Montanelli nel cuore e baffi da Tognazzi: Rovazzi è l'erede dei comici milanesi

A 24 anni è un "nerd" stakanovista ma sfoggia cultura e citazioni

Montanelli nel cuore e baffi da Tognazzi: Rovazzi è l'erede  dei comici milanesi

C'è una linea lombarda in letteratura, ossia Gadda-Brera-Arbasino, e c'è una linea milanese nella canzone comica: Jannacci, Gaber, Jannacci e Gaber insieme (Ja-Ga Brothers), Celentano, gli immigrati luinesi Massimo Boldi e Francesco Salvi, l'immigrato tranese Leone Di Lernia, Elio e le Storie Tese, Rovazzi. Ognuno coi propri mezzi e con la propria cultura, con dosaggi diversi di espressionismo, citazionismo e virtuosismo, ma con esiti abbastanza simili in termini di divertimento. Ecco pertanto la Milano da ridere, che è un po' meno arrembante e gaudente della Milano da bere, e però. Sono arrivato a queste conclusioni guardando l'ultimo fantasmagorico video di Rovazzi, Faccio quello che voglio.

Mentre mi godevo inseguimenti e trasformazioni mi facevo delle domande: perché mi piace così tanto? E che cosa mi ricorda, visto che mi ricorda qualcosa? Non poteva essere soltanto l'epifania di Diletta Leotta, telegiornalista sportiva che, scusate lo snobismo, non contemplando nella mia dieta mediatica la televisione non mi era mai capitato di ammirare. Nel video è una sorta di Venere uscita dalle acque, più vestita dell'originale botticelliano (il cantante di Lambrate è un bravo ragazzo che non vuole turbare i minori) e tuttavia più carnale. Rovazzi è quanto di più fisicamente meneghino. Mediaticamente modernissimo (Andiamo a comandare è stata la prima canzone italiana a diventare disco d'oro e poi di platino soltanto grazie a YouTube e Spotify, senza un disco nel senso stretto della parola), musicalmente attualissimo (Faccio quello che voglio ha suoni elettronici fantastici) e antropologicamente fuori tempo massimo, con quella faccia da oratorio, quelle braccia pulite (nessun tatuaggio), quei baffetti da caratterista del cinema in bianco e nero. Scrutandolo ho avuto un'illuminazione: i baffi sono quelli del lombardo Ugo Tognazzi e del lombardo Alberto Lattuada, rispettivamente protagonista e regista di Venga a prendere il caffè da noi, tratto da un romanzo del lombardo (però senza baffi) Piero Chiara.

Oggi circolano un mucchio di barbuti e sulle prime non capisci se sono terroristi dell'Isis o titolari di barber shop. Come si fa a gestire igienicamente tutto quel pelo acchiappapolvere, acchiappainsetti, acchiappasugo? Ci saranno degli sporcaccioni e ci saranno signori pulitissimi che possono permettersi di dedicare ogni giorno molto tempo alle pulizie tricologiche. No, il milanese operoso al massimo porta i baffetti. E lui, il Rovazzi, è un vero stakanovista: autore, cantante, compositore, sceneggiatore, montatore, regista... Ammette di non saper delegare e pertanto di dormire pochissimo. Lavorava tanto anche prima di darsi alla musica: tecnico dei computer (il suo lato nerd), cameriere (scuola di umiltà), animatore (gli è servito tanto). Sembra un milanese al quadrato ossia un milanese del boom: pensare che è nato nel 1994 dunque in pieno sboom tangentopolesco.

Ho scoperto che all'anagrafe si chiama Piccolrovazzi, raro cognome trentino. E anche questa è storia milanese perché Milano l'hanno fatta i non milanesi (già nel X secolo l'arcivescovo Ariberto da Intimiano prometteva: «Chi emigra a Milano e sa lavorare diventa uomo libero») parecchi dei quali scendevano dalle montagne di Trento. Penso a Fausto Melotti, lo scultore, a Gino Pollini, l'architetto e il padre di Maurizio Pollini, il pianista, e soprattutto a Fortunato Depero, l'artista senza il quale il milanesissimo Campari non avrebbe la sua iconica bottiglietta. Resta che quello del cantante sembra un cognome inventato da Carlo Emilio Gadda per un personaggio dei suoi Accoppiamenti giudiziosi, dove c'è un Besozzi e un Rovazzi ci starebbe benissimo, somigliando a quel Rovani che fu maestro di Carlo Dossi (quindi linea lombarda pure lui). Continuità letterarie e continuità musicali: nel video di Faccio quello che voglio fra i numerosi cameo c'è Massimo Boldi e la presenza dell'antico Cipollino mi ha fatto tornare in mente Zan zan le belle rane, brano milanese tra i più spassosi (diciamo pure: tra i più folli), scritto negli anni Settanta insieme a Enzo Jannacci.

Sì, sono un conservatore, e mi piace cogliere le costanti e convincermi che sebbene tutto si trasformi nulla si perda davvero. Si potrebbe pensare che pur di arruolare qualcuno nelle rade schiere del conservatorismo io sia disposto anche ad arrampicarmi sugli specchi. Stavolta non ce n'è bisogno. Lo scoop l'ho serbato per il finale: Rovazzi riconosce come maestro Montanelli. Ripeto: Indro Montanelli. Che fosse un moderato era già evidente da dichiarazioni come questa: «Possiamo divertirci con qualsiasi cosa. Non solo con droghe e alcol. Chiunque si può divertire con quello che ha a disposizione. Non mi piace l'eccesso». Ma che fosse un montanelliano proprio non me lo aspettavo.

Eppure su internet spiega così la morale (un hit estivo con una morale!) di Faccio quello che voglio: «È importante per le nuove generazioni capire che non bisogna comportarsi così ma pensare al bene comune e riprendere quella resistenza nazionale che abbiamo perso, come diceva Montanelli». Un cantante ventiquattrenne, coetaneo e compagno di strada dei peggiori rapper, dichiaratamente montanelliano: la cosa più straordinaria di Fabio Rovazzi non è il suo straordinario successo.

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