La nuova «odissea» di Clemente è un viaggio che solca l'acquerello

Uno dei maestri della Transavanguardia torna in scena a Siena e ad Alba

Luca Beatrice

Q uando, a partire dagli anni '80, la Transavanguardia era considerata il movimento artistico italiano che meglio ci rappresentava all'estero, Francesco Clemente veniva preso a simbolo di quello spirito internazionalista, postmoderno, globale e nomadico che davvero costituiva l'essenza del gruppo lanciato da Achille Bonito Oliva.

Nato nel 1952 a Napoli, Clemente decide di trasferirsi presto a New York: sa bene che solo dall'altra parte dell'oceano avvengono le cose che contano e che il successo di un artista, per quanto legato alla tradizione culturale del suo paese, si misura dal credito ottenuto in un ambiente competitivo come quello di Manhattan. Così diventa amico di Andy Warhol e di Jean-Michel Basquiat: insieme hanno realizzato grandi opere a 4 e 6 mani. C'è chi ha parlato di un'astuta operazione di marketing studiata dal gallerista zurighese Bruno Bischofberger, chi della sintesi più efficace di un decennio comunque indimenticabile per il ritorno del colore e l'esplosione del mercato. Tra Clemente e New York il feeling scattò ben presto, l'unico italiano a sentirsi parte integrante del tessuto cultural-mondano della città ben prima di Maurizio Cattelan: sua la decorazione del soffitto al Palladium, la discoteca più hype degli anni '80, e persino Bret Easton Ellis lo cita tra le persone da conoscere assolutamente in American Psycho.

A proposito di letteratura, Clemente ha spesso cercato contatti con universi altri da tradurre in pittura; la scrittura appunto (fan della Beat Generation, Burroughs e Ginsberg in particolare), il cinema, una mistica religiosa derivatagli dal frequente contatto con l'India, poiché a lungo ha abitato a Madras. Insomma, un uomo dai molteplici interessi culturali, che ha saputo resistere alla crisi della Transavanguardia e all'estinguersi di quel mood davvero irripetibile che si trascinò dietro l'ultimo reale trionfo del made in Italy nel mondo.

E se nel giro dell'arte non si fa che parlare di poveristi e concettuali, la nuova stagione di Francesco Clemente conferma che davanti a un grande talento pittorico non si resta mai indifferenti, anzi. In particolare il discorso vale per l'acquerello, tecnica in cui oserei definirlo il migliore al mondo. L'artista napoletano ora è in mostra a Siena, in Santa Maria della Scala con Fiori d'inverno a New York (fino al 2 ottobre), dieci opere inedite realizzate in collaborazione con la moglie Alba Primiceri; ma l'evento autunnale, molto atteso, è l'apertura di After Omeros nel Coro della Chiesa della Maddalena ad Alba (fino al 13 novembre), per il quinto appuntamento promosso dalla famiglia Ceretto durante la Fiera Internazionale del Tartufo. L'idea, semplice ed efficace, funziona: unire due grandi eccellenze italiane, l'arte e il cibo.

Dopo presenze straniere del calibro di Anselm Kiefer e Kiki Smith, tocca finalmente a un nostro artista. Clemente non si smentisce presentandosi ogni volta con lavori nuovi, per un progetto che si sviluppa su due installazioni, una enigmatica barca in legno incisa, e 41 acquerelli ispirati all'Omeros di Derek Walcott, lo scrittore caraibico che nel 1992 vinse il Premio Nobel. Di lui Clemente rivela che ha un carattere difficile, che ama parlare più dei dispiaceri che dei successi. «Sono stato ossessionato da Omeros di Derek Walcott» - rivela -. Omeros è il racconto del naufragio della Storia.

Le isole sono un labirinto dove la Storia perde il suo corso e tutti i suoi grandiosi disegni, sminuiti dalla vastità del mare, finiscono in ruggine, nell'infinito appannato di vani proclami, nell'argento e oro di tesori a onda».

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