Uno dei più autorevoli estimatori della produzione artistica di Enrico Benaglia fu un grande pittore del Novecento, Giovanni Stradone, il maggiore esponente del cosiddetto «neoespressionismo tonale e metafisico» germogliato dal terreno di quella «scuola romana», che fu protagonista del rinnovamento artistico italiano a partire dagli anni trenta e che, nei decenni successivi, divenne interlocutrice attiva nel dibattito sull'astrattismo. Stradone non aveva un carattere facile e chi, come me, lo ha frequentato negli ultimi anni della sua vita operosa ne ricorderà le battute amare e gli sfoghi polemici, quasi al limite dell'invettiva, nei confronti del «dilettantismo» e della «furbizia» che, a suo parere, inquinavano il panorama artistico italiano. Ebbene, questo artista, pur scontroso e solipsista, fu tra i primi ad apprezzare l'allora giovane Benaglia al punto di volerne acquistare un'opera e stabilire con lui un rapporto di amicizia e cordialità.
Vide nell'artista romano, appartenente a una generazione più giovane della sua Stradone era nato nel 1911 mentre Benaglia era del 1938 un buon pittore e un serio professionista del pennello. L'ultima mostra di Benaglia che è stata appena inaugurata nella suggestiva cornice della romana Villa Altieri (fino al 17 luglio) e che, presentando 35 opere, si propone come una piccola ma esaustiva antologica dei temi tipici della sua produzione conferma il giudizio positivo di Stradone su un artista che, con il tempo, è andato acquisendo un posto preciso grazie alla sua visionarietà, alla originalità dei suoi lavori e alla tecnica personalissima con la quale sono realizzati.
I quadri di Benaglia per la piacevolezza delle immagini, la fantasia delle composizioni, la delicatezza dei toni cromatici colpiscono la fantasia dell'osservatore e lo trasportano in un mondo fiabesco e irreale, quasi un «paese delle meraviglie» popolato di giocattoli animati, di rose vanitose allo specchio, di animali antropomorfizzati, di presenze umane stilizzate, di note musicali a spasso nello spazio, di stelle e ammassi di stelle che, lassù, solitarie o in ammassi, «stanno a guardare», e via dicendo. Tuttavia i suoi dipinti sono solo apparentemente «facili» perché dietro ognuno di essi si celano un profondo lavorio stilistico e, soprattutto, una continua riflessione teoretica sul significato dell'esistenza che, accanto alla gioia di vivere e al richiamo nostalgico per l'età dell'innocenza e del fiabesco, non cela motivi di preoccupazione e tristezza per il destino di un homo ludens pronto a trasformare i giochi in drammi. C'è un dipinto di Benaglia, realizzato durante i tragici avvenimenti della guerra in corso, che si intitola Non deve più succedere e che mi ha colpito: vi si vedono quegli stessi giocattoli e soldatini e fiori che rendevano gioiose altre tele trasformati in relitti o in residui cinerei.
Per quanto non sia corretto inserirlo in una precisa corrente artistica, mi sembra fuor di dubbio che Benaglia si ponga in posizione di contiguità o continuità con la cosiddetta «scuola romana» e con i suoi epigoni ma anche con il «realismo magico» e con l'esigenza, da questo portata avanti, di inserire i soggetti trattati in un'atmosfera, per l'appunto «magica» e, quasi, «metafisica», percorsa da venature di inquietudine.
La lezione di molti grandi artisti è presente nella sua produzione. Lo è come suggestione o richiamo emotivo, mai come citazione esplicita. I nomi, per fare solo qualche esempio, di un Antonio Donghi o di un Franco Gentilini, di un Riccardo Francalancia o di un Giovanni Stradone sono in qualche misura, a livello di soluzioni formali o di tematiche, certamente evocabili insieme a quelli di grandi artisti stranieri come Balthus o René Magritte che concepivano la pittura come mezzo per la conoscenza o l'esplorazione di un mondo inseparabile dal suo mistero. Per non dire, ovviamente, di taluni percettibili riferimenti allusivi a Marc Chagall e a Paul Klee, ma anche a Ruggero Savinio ed Enrico Baj. Il tutto, però, filtrato e trasfigurato e trasportato in un mondo che è soltanto dell'artista romano.
Queste caratteristiche sono evidenti nei grandi cicli pittorici e tematici di Benaglia: la serie dedicata a I quartieri dell'anima, quella che racconta Il giardino segreto o quella che introduce al favoloso e immaginifico mondo circense, o ancora le serie che hanno per protagonisti il tempo, i cinque sensi, il mare, gli angeli, la musica e, da ultimo, i cieli e le stelle. Pur nella diversità dei soggetti affrontati dal pennello si riscontrano una medesima sensibilità e un medesimo approccio emotivo insieme a quella misteriosa capacità evocativa, propria di Benaglia, di creare atmosfere silenti, rarefatte e inquietanti che lo sbalordimento e lo stupore dell'artista di fronte al mistero e al sogno trasformano da immaginarie in reali.
Nella mostra romana si ritrovano molti di questi temi. A partire, per esempio, dai suggestivi «quartieri dell'anima» che propongono scorci di vie, piazze, incroci stradali, selciati, balconi, parchi, fontanili e laghetti di un tessuto urbano rivisto da un pittore in grado di cogliere l'arcano e l'animo segreto della grande città capace di vivere persino senza abitanti ovvero popolata da presenze allusive raffigurate da sagome stilizzate che riproducono figurine realizzate con carta o cartoncino in situazioni giocose e oniriche. Si tratta di dipinti ad olio caratterizzati dall'uso di colori soffusi e calibrati nella loro pastosità e capaci di generare effetti e illusioni cromatiche simili a quelle del pastello o dell'affresco. I titoli di alcuni di questi quadri stimolano la fantasia di chi li osserva e si pongono come veri e propri «racconti» dal sapore fiabesco: La notte che porta via i sogni, per esempio, o Giocando con il cielo.
Il mondo di Benaglia, insomma, è un mondo «altro» rispetto a quello reale, ma è pur sempre un mondo
vero, che recupera la parte più intima, segreta, dell'individuo: la sua capacità di sognare, giocare, stupefarsi, illudersi ma anche riflettere, pur con un pizzico di inquietudine, di fronte al grande mistero dell'esistenza.
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