da Venezia
Alla stampa americana non è piaciuto il freak Leopardi interpretato da Elio Germano, grottesco e caricaturale. Forse gli piacerà il gay Pasolini reso da Willem Dafoe, misurato e sobrio, sebbene parli in inglese con la madre e in un italiano stentato con quel Pino Pelosi che poi l'ammazzò. Nelle biografie cinematografiche, il diavolo sta nei dettagli, e tra il rachitismo del gobbo di Recanati e il vitalismo omosessuale del regista di La ricotta , la resa sullo schermo può fallire per eccesso o per difetto, specie se poi l'involucro non dò conto della sostanza. Per sua ammissione, quella di Pasolini era una «vita violenta», nel suo notturno immergersi in una sessualità panica e pericolosa, contraltare di una routine diurna da professore delle lettere e dello scandalo. Se non rendi la prima, non capisci la tragicità di quella fine, quasi desiderata se non cercata, e ciò che resta è l'altro aspetto, incomprensibile e cinematograficamente noioso: ama la mamma, è gentile, gli piace il calcio.
Per un Leopardi che, vergine, invece che in una donna si imbatte in un femminiello dei Quartieri spagnoli, c'è un Pasolini che nel pensare al film Porno-Teo-kolossal ipotizza una Sodoma romana che, dice la guida trasteverina che fa da cicerone, «c'ha pe' abitanti lesbiche da 'na parte e gay da l'artra» e questo in quegli anni '70 in cui i gay nel linguaggio comune non esistevano e l'omosessualità aveva ancora cadenze regionali: ricchioni e busoni, froci e culattoni... Il cinema non è filologia, ma la ricostruzione storica dovrebbe avere un suo perché, soprattutto se ci si affanna a giurare sulla scrupolosità della messa in scena e sul lavoro «matto e disperatissimo» sui documenti. Si dirà, ogni regista ha le proprie licenze poetiche e quindi il napoletano Eduardo de Filippo, che nelle intenzioni di Pasolini avrebbe dovuto essere il Virgilio di quel film, può assumere il corpo pesante e la cadenza greve di Ninetto Davoli, e il ruolo di quest'ultimo, un romano che chissà perché parla napoletano, può essere anche interpretato da un Riccardo Scamarcio che ha la dizione napoletana di un pugliese. Però, non bisogna esagerare...
Al netto, Abel Ferrara, che di Pasolini è il regista, si tiene giustamente alla larga da complottismi e dietrologie: si ispira a quei lavori pasoliniani rimasti incompiuti, la stesura di un romanzo, la sceneggiatura di un film, che gli servono per innervare una storia altrimenti povera di storia. Solo che così dell'uomo Pasolini sappiamo poco, dell'intellettuale «corsaro» non sappiamo niente. Pranzi in famiglia o al ristorante, interviste dai toni ieratici, titoli di giornale e un po' di graffiti metropolitani a dare il tono dell'epoca: c'è una che inalbera un bocchino e dovrebbe essere Laura Betti; c'è uno che non si sa chi sia, ma dal press-book apprendiamo essere Nico Naldini, che però parla in inglese con l'accento di Valerio Mastandrea.
Non che così facendo Ferrara ammazzi Pasolini una seconda volta: non era nelle sue intenzioni, e nemmeno nei suoi mezzi. Però ne fa una figurina smorta, a cui Willem Dafoe dona un volto eternamente corrucciato, rassomigliante certo, nei vestiti, negli occhiali, persino nel modo di camminare, ma inanimato.
Gli elogi per Sandro Penna o per Leonardo Sciascia, le lettere scritte al «caro Alberto», ovvero Moravia, sono gli unici elementi atti a indicarci che dietro dovrebbe esserci una vita culturale: dibattiti, scontri, polemiche. Bastano? Diremmo di no.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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