Plebe, il sorpasso a destra che sconvolse l'Italia rossa

Negli anni '70 lasciò il marxismo e sposò l'Msi Durò poco, ma dopo nulla fu più come prima

Plebe, il sorpasso a destra che sconvolse l'Italia rossa

Nei primi anni Settanta del Novecento successe un fatto strano. Un brillante filosofo di sinistra, dall'impeccabile pedigree accademico, cattedra e pubblicazioni incluse, e, in quanto tale, di casa nella Mosca brezneviana, passò di colpo politicamente a destra. Lo scandalo fu enorme, anche perché la destra di allora era incarnata da un partito, il Movimento Sociale Italiano, di cui si condannava il fascismo ereditato e il neofascismo dichiarato e se ne additava al pubblico ludibrio lo squadrismo reale, quello immaginato e quello millantato. Quanto alla sinistra, l'allora egemonia del Partito Comunista Italiano faceva del primo termine una mera appendice del secondo e, come si dice, tertium non datur: se eri di sinistra eri comunista, punto. Così, un comunista divenuto fascista era indubbiamente un fatto strano, l'esatto contrario di quanto il progresso ideologico aveva sino ad allora dato per scontato e per ben accetto, i fascisti che dopo la fine della seconda guerra mondiale si erano redenti diventando comunisti... Un fatto strano e un fatto grave, dunque, e sul filosofo in questione si scatenò il finimondo.

Il suo nome era Armando Plebe, morto ieri pacificamente nel suo letto alla bella età di ottantanove anni, e il suo fu un classico caso di circonvenzione di capace, nel senso che sia lui, sia l'altro artefice dell'operazione, l'allora segretario missino Giorgio Almirante, sapevano bene che cosa stessero facendo. Il primo voleva uno scandalo intellettuale a misura di un ego che, per sua stessa ammissione, era molto sviluppato; il secondo un nome culturalmente spendibile per dare lustro a una cultura ritenuta, a torto o a ragione, impresentabile. Non poteva durare, e infatti non durò, ma per un quinquennio Plebe regnò su quel disastrato campo della destra culturale come un signore rinascimentale: fu eletto senatore, gli vene affidata una rivista, fu nominato a capo dell'organizzazione universitaria che riuniva i giovani iscritti del partito e i suoi simpatizzanti.

Quando tutto finì, nulla o quasi fu però come prima e a cinquant'anni e poco più Plebe si ritrovò a fare il professore universitario, senza più lo zolfo demoniaco intorno alla sua figura, ma senza nemmeno l'aura pubblica di pensatore anarchico e controcorrente che avrebbe voluto per sé. L'essere passato dal Msi a Democrazia nazionale, la sua corrente democratica e scissionista, stemperò un po' le accuse, ridicole, di fascismo nei suoi confronti, il fallito tentativo di entrare nei radicali gli sbarrò le porte di nuovi, plateali, libertinismi ideologici. Per i successivi quindici anni, restò insomma una figura accademica rispettata, ma non incisiva nel dibattito intellettuale del tempo e se con la fine della Prima repubblica lo colse una voglia di riapparire sulla scena (fu tra l'altro collaboratore del Giornale), è dagli anni Duemila che la sua produzione non specialistica tornò a manifestarsi: Il nuovo illuminista. Obiettivo libertà, del 2004, il Manuale dell'intellettuale di successo, del 2005, Memorie di sinistra e memorie di destra. Un filosofo degli anni ruggenti, del 2012.

Per tornare ancora un attimo a quegli anni Settanta così cruciali nel suo percorso, va detto che un ruolo importante nella nascita di quel nuovo Plebe lo ebbe Alfredo Cattabiani, allora responsabile editoriale della Rusconi. Sarà lui a commissionargli due pamphlet che, una volta pubblicati, supereranno le 100mila copie. Si intitolavano Filosofia della reazione e Quel che non ha capito Carlo Marx, erano scritti benissimo, perché il suo autore sapeva scrivere, e andavano a colpire proprio ciò che in quegli anni si stava sempre più affermando, il dogmatismo comunista con le sue chiusure e il suo filisteismo di fondo, l'ipocrisia di un pensiero settario e insieme conformista. Al fondo, Plebe era un marxista deluso dalla rigidità di una dottrina con la sua mitologia della rivoluzione certa e del progresso permanente, e un pensatore in totale disaccordo con il Sessantotto, il suo giovanilismo insopportabile e d'accatto, la sua pretesa di fare tabula rasa di ogni criterio valutativo, il 18 politico, gli esami di gruppo, etcetera, etcetera.

Laureato oltre che in filosofia in filologia classica, ordinario a 35 anni di Storia della filosofia a Palermo, studioso profondo del pensiero di Aristotele, formatosi nella Torino illuministica del dopoguerra e nella austera Innsbruck degli anni Cinquanta, Plebe aveva esordito, con Processo all'estetica, un libro del 1959, combattendo il crocianesimo negli anni in cui era ancora d'obbligo essere crociani, e aveva proseguito combattendo, quale marxista, le ipocrisie del perbenismo intellettuale negli anni in cui era rischioso definirsi marxista. In Discorso semiserio sul romanzo, del 1966, aveva preso robustamente di petto l'avanguardia letteraria allora di moda.

La sua rottura con tutto questo mondo avvenne, lo abbiamo prima ricordato, quando la sinistra occidentale finì con l'identificarsi con la cosiddetta contestazione e la sua filosofia della reazione era in fondo quella di un uomo di buon senso contro gli eccessi.

Era difficile che da ciò potesse venire una rifondazione del pensiero di destra, e del resto Plebe non si considerava un pensatore di destra e se avesse incontrato un reazionario doc non lo avrebbe riconosciuto. Ma negli anni Settanta era tutto possibile e per un lustro ci fu chi si convinse che fosse meglio avere un marziano a Roma che i fascisti su Marte.

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