Quando Harrison sfidò Lennon-McCartney e vinse alla grande

Nuova edizione per "All Things Must Pass", disco con brani scartati dagli "scarafaggi"

Quando Harrison sfidò Lennon-McCartney e vinse alla grande

George Harrison era il Beatle timido, quello che si vedeva rispedire al mittente i brani dalla coppia John Lennon & Paul McCartney. Non che non abbia lasciato traccia di sé nella discografia degli scarafaggi: Here Comes the Sun, Something, While My Guitar Gently Weeps e altri ventidue capolavori sono lì a testimoniare il contributo concreto di George. Ma avrebbe potuto essere ancora più ampio, come si apprende dallo strepitoso cofanetto celebrativo del cinquantesimo anniversario di All Things Must Pass, che segue la rimasterizzazione del disco originale dell'anno scorso. Sono quattro dischi e un blu-ray zeppi di provini, versioni alternative, brani esclusi. All Things Must Pass uscì alla fine del 1970. Fu primo in molte cose: è il primo disco di George dopo lo scioglimento dei Beatles; è il primo disco triplo della storia; raggiunse il primo posto sia in Gran Bretagna sia negli Stati Uniti.

George il timido si trovò a banchettare in testa ai gradassi, per giunta con un album composto, in gran parte, con i pezzi che non trovarono spazio in Let It Be. Così, quando George, nel 1970, entrò in studio, aveva già tra le mani una trentina di canzoni, una più bella dell'altra, tra le quali scegliere. Aggiunse una o due jam, scrisse ancora qualcosa e voilà: ingresso trionfale nelle classifiche di vendita e giudizio unanime della critica, un gran disco, in tutti i sensi. Dietro le manopole, il produttore Phil Spector. Davanti ai microfoni una squadra di all star, da Eric Clapton a Billy Preston, da Ringo Starr a Bobby Keys. Nulla toglie al valore dell'opera la interminabile causa per plagio, infine persa, per il singolo My Sweet Lord, riconosciuto simile a He Is So Fine, un successo delle Chiffons. Va anche detto che la canzone, alla quale Harrison affidava il compito di avvicinare Occidente e Oriente, cristianesimo e Hare Krishna, ha una struttura così semplice da ricordare una miriade di altri 45 giri.

Ora, grazie al libro allegato al cofanetto, abbiamo il racconto brano per brano di George. Qualche perla. Nel 1968, Harrison è invitato dagli amici di The Band a trascorrere qualche giorno nella bucolica Woodstock, all'epoca buen ritiro di rockstar stufe di essere fermate per strada. Toh, il vicino di casa è Bob Dylan. I due si mettono a canticchiare e in un pomeriggio scrivono I'D Have You Anytime, che andrà ad aprire, trionfalmente, All Things Must Pass. Dylan è una presenza forte nel disco, del resto era l'eroe di George. C'è una sua cover, If Not For You, e Behind That Lock Door, dice Harrison, è un tentativo di emulare Lay Lady Lay, singolo di successo del futuro Premio Nobel. Nel 1970, i Beatles stanno litigando, Ringo se ne va, Lennon scalpita, sono in corso le riprese di Let it Be, il clima è teso: «A un certo punto non ne potevo più. Mi sono detto: basta, mi chiamo fuori. A casa ho attaccato la chitarra ed è venuta fuori Wah Wah». Diventerà la prima canzone incisa per All Things Must Pass, con un piccolo aiuto degli amici, tipo Eric Clapton. A proposito di Clapton, il 1970 è l'anno di Layla, la canzone più famosa del chitarrista, dedicata in realtà a Pattie Boyd, la moglie di Harrison. Clapton ne è innamorato fradicio e finirà con portarla via all'amico (non troppo dispiaciuto) alcuni anni dopo.

Quando All Things Must Pass uscì alcuni critici dissero che Isn't It a Pity copiava I Am the Walrus, uno dei capolavori di Lennon, e anche Hey Jude, uno dei capolavori di McCartney: peccato che Isn't it a Pity risalga ai tempi di Revolver, album dei Beatles del 1966, e preceda sia I Am the Walrus (1967) sia Hey Jude (1968). Chi ha preso da chi? A Lennon e McCartney, la canzone non andava a genio e George valutò di regalarla a Frank Sinatra. Poi decise di tenerla nel cassetto. All Things Must Pass è quasi una citazione dal guru psichedelico Timothy Leary, lo psichiatra di Harvard convinto prima di poter curare le malattie mentali con l'acido lisergico e poi, visto che non funzionava, di poter spalancare le porte della percezione con somministrazioni controllate ai ricconi in cerca di sballo. Il verso viene dalle poesie di Leary, e a George piaceva perché «tutto passa, un tramonto non dura per sempre, e dunque dobbiamo lasciare che le cose cambino». Thanks For the Pepperoni è un omaggio al caustico comico statunitense Lenny Bruce, che chiudeva con quelle parole i suoi monologhi, come: «I liberal capiscono tutto, eccetto la gente che non li capisce, e grazie per i peperoni».

Più di Lennon, il Beatle timido ha incarnato alla sua maniera lo stereotipo del musicista frichettone degli anni Sessanta. Imbevuto di misticismo orientale, convinto dagli acidi dell'esistenza di una altra realtà, capace di frullare insieme tutte le religioni restando, tutto sommato, perfettamente laico, alfiere della controcultura a patto che sia non violenta e riscattata da un sarcasmo di fondo. All Things Must Pass contiene questo e anche altro: è un disco che descrive un'epoca ormai, nel 1970, al tramonto. La droga, lungi dal fornire uno sguardo più ampio, si traduce solo in distruzione e depressione. La controcultura non andrà da nessuna parte, in Italia anzi andrà a occupare ruoli di spicco nei media e in politica. Un contrappasso.

Harrison non toccherà più queste vette artistiche. Gli anni Settanta proseguono con un concerto di beneficenza per il Bangladesh che si trasforma in una trappola fiscale e con un George all'apparenza sempre più lontano dalla musica e sempre più vicino alle altre sue passioni: la Formula Uno, non è raro vederlo ai pit stop di prestigiose squadre, e la cura della sua stravagante magione, Friar Park, in particolare del giardino. A parte il pollice verde, Harrison mostra un certo fiuto cinematografico: fu, ad esempio, il produttore di La vita di Brian dei Monthy Pyton. Ma fonda anche una sua casa discografica, la Dark Horse, molto attenta alla musica indiana, specie quella del magico sitar di Ravi Shankar.

Per una rinascita musicale bisogna attendere la fine degli anni Ottanta, e l'album Cloud Nine, ottimi brani anni Cinquanta (I Got My Mind Set On You) e un altro piccolo aiuto degli amici, Eric Clapton ed Elton John. Il disco va in classifica anche negli Usa. Poi arriva il supergruppo dei Travelling Wilburys con Roy Orbison, Tom Petty, Jeff Lyne e Bob Dylan. Il successo è notevole. Il primo dei due album vende sei milioni di copie.

Harrison passa tranquillo gli anni Novanta, sistemando l'archivio dei Beatles, fino alla notte in cui uno squilibrato entra in casa sua e lo ferisce gravemente al ventre. Lo salva la moglie Olivia che abbatte l'intruso con un attizzatoio. Muore, malato, nel 2001, le sue ceneri sono state accolte dal Gange, in India. Aveva soltanto 58 anni.

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