Vorpsi, il fascino irresistibile di una lingua (non) madre

Con questo articolo prosegue la serie di ritratti dal titolo "Le solitarie", firmati da Davide Bregola e dedicati alle scrittrici italiane appartate, cioè autrici contemporanee fuori dai grandi giri mediatici. Stavolta tocca a Ornela Vorspi, albanese di nascita, che ha scelto l'italiano come lingua di scrittura

Vorpsi, il fascino irresistibile di una lingua (non) madre

Mi era venuta la fissa per Ornela Vorpsi. Un po' perché aveva fatto l'accademia di belle arti in Albania e poi a Milano alla Brera, un po' perché era fotografa e nelle prime copertine de Il paese dove non si muore mai e La mano che non mordi c'è lei raffigurata di spalle con un vestito rosso nel primo e con due ali dipinte sulle scapole nel secondo. Soprattutto scriveva direttamente in italiano pur avendo l'albanese come lingua madre. Mi ero persino comprato una plaquette color fucsia, di Nottetempo edizioni, nella quale l'autrice accompagnava, con didascalie, foto di particolari in bianco e nero scattati da lei stessa. Mi interessava tutto di questa scrittrice. Uscita da chissà dove nel 2004, per la casa editrice francese Actes Sud aveva esordito e, successivamente, pubblicata da Einaudi con meritevole sagacia. Chi era la Vorpsi? Da dove saltava fuori?

Quando cercavo storie senza troppe balle, mi rifugiavo sempre e solo negli stessi libri di Agota Kristof e in Cani selvaggi di un'autrice dal nome impronunciabile: Humphreys. Leggevo e rileggevo quei quattro o cinque romanzi e racconti. Poi ho scoperto questo libro dolce e violento in cui un «Io» di sette, tredici e ventidue anni racconta come vive una bimba, un'adolescente e una donna sotto il regime di Hoxha in una società chiusa e maschile. Nulla di politico però. Non ho mai creduto alle storie in cui la politica non fa da sfondo ma è in primo piano. Qui il regime è solo un velato pretesto per raccontare la contemporaneità: «Di polvere e fango è fatto questo paese: il sole brucia a tal punto che le foglie delle vigne si arrugginiscono e la ragione comincia a liquefarsi». Scrive la Vorpsi. È tutto così, pieno di poesia. Penso che la grazia narrativa sia stata raggiunta dall'autrice proprio perché ha avuto la fortuna di usare un italiano da straniera, senza orpelli, senza troppi aggettivi inutili, lontana dai modi di dire mediatici di chi ha troppa confidenza quotidiana con una sintassi e un lessico corrotti dall'uso. Lei no. Lei ha una prosa immaginifica dall'andamento forte. Se l'avete letta capite cosa intendo. Roba di pelle, più che di testa. Che donna! Il paese dove non si muore mai è formato da quadri i cui titoli hanno termini evocativi: Corona di Cristo, Sogno, Acque, Sangue rosso sulla neve bianca, Giardino d'Infanzia situazioni narrative come poesie di Adonis, Ismail Kadare, e, ma non so perché, Rumi. Leggo lei e l'estetica è messa da parte per tirare fuori qualcosa di ancestrale, forse qualcosa che precede il linguaggio. Potrebbe essere un nostro Sud, quell'Albania raccontata. Potrebbe essere un profondo Nord. Non mi sarei sorpreso se questi episodi fossero ambientati, che ne so, a Vicenza o a Catanzaro. Invece è Tirana. Ma sarebbe riuscito un narratore italiano o una narratrice a raccontare con questa spietatezza? Questa spregiudicatezza? Questa semplicità? Probabilmente dopo di lei sì. Prima di lei no. Per questo credo nelle storie e nei romanzi della Vorpsi: perché ampliano possibilità. C'è qualcosa del fotografo albanese Gjon Mili nella narrativa dell'autrice. Ma ci leggo anche tanto neorealismo ben digerito. Qualcosa di internazionale e di balcanico.

Poi c'è La mano che non mordi che per me è un romanzo di viaggio, anche se racconta lo spaesamento vissuto da un'emigrata, anzi per essere precisi da un'apolide quale, forse, è l'autrice stessa. Un romanzo le cui tappe sono pittoresche: Sarajevo, Tirana, Bosnia, Albania, Serbia, e per noi che andiamo a Pinarella di Cervia o a Schiavonea, sembra un viaggio strano. Invece quello è il vero viaggio, in cui la protagonista incontra persone da Mille e una notte, e parla con tutti, dai tassisti ai gestori di trattorie, ma sempre con la mente rivolta ai grandi artisti: «I miei sensi sono inturgiditi e svegli in maniera diversa dal consueto. La novità mi richiede un'attenzione che mi costa cara, perché mi do senza protezioni (per questo ho sempre amato la gente che non sa misurarsi e si sovraespone: Majakovskij, Esenin, Sacher-Masoch, Van Gogh, Robert Walser, Simon Weil eccetera)». scrive l'autrice e mi fa venire in mente l'Handke più in forma degli anni '80.

Spesso nei suoi libri tragedia e ironia convivono egregiamente. C'è questa raccolta di racconti, Bevete cacao Van Houten! che ne è un esempio perfetto. Moma, la bisnonna senza età, che chiama la morte e non arriva. Petraq il pittore dei colori rossi, dal corpo fragile e minuto, a cui il tempo toglieva ossa e cervello. Gazi il meccanico prestante e virile che voleva essere un chitarrista e voleva attraversare l'Adriatico. Sono storie che forse Hrabal avrebbe potuto apprezzare, storie a volte surreali ma possibili. Ornela Vorpsi scrive tenendo sempre a freno il folklore e nelle sue storie non c'è mai quel fastidioso esotismo che alcuni scrittori a volte usano per accattivarsi i gonzi lettori europei di un certo tipo. Poi c'è questo potente martello che è Viaggio intorno alla madre. Un romanzo che racconta di un bimbo, una madre, un padre e un amante. Succede che il bimbo ha la febbre e la madre vuole comunque, a tutti i costi, vedere l'amante. Perché? Perché oggi vuole toccare ancora un po' quello che brucia. I rapporti di coppia sono complessi, a volte. La maternità anche, così come il senso di colpa. Ma la vita e l'istinto spesso ci impongono di agire. Romanzo molto francese, questo. Alla Marguerite Duras, se la Duras usasse la lingua come un maniscalco. Questo Viaggio è un chiodo piantato dritto dentro agli stereotipi per farli sanguinare. A proposito di stereotipi, un pomeriggio facemmo un incontro pubblico con Ornela per presentare i suoi libri. Quella volta arrivò all'aeroporto di Bologna e ci trovammo catapultati in una meravigliosa sala affrescata di un palazzo rinascimentale. L'organizzazione aveva pensato di farci accompagnare da una fisarmonica piangente dai ritmi vagamente balcanici. Come se ogni volta che un italiano entrasse in un altro Paese arrivasse uno col mandolino a suonare Funiculì Funiculà. Vabbè. Alla fine non ci stava così male, quel suono, ma non è questo il punto. La Vorpsi parlò molto di arte e di cinema, di trasgressioni linguistiche e di Primo Levi. Un'autrice dalla visione internazionale, poliglotta. Quando uscimmo ci rilassammo a guardare vetrine sotto i portici: vestiti, borse, scarpe aveva un particolare fiuto per gli oggetti belli. Mi trovavo sempre d'accordo con lei. Ci raggiunse un poeta. Ascoltava, parlava poco. Successivamente il poeta, espertone di donne, mi disse che se una donna albanese dice che quella cosa in vetrina è bella, tu gliela devi comprare, perché lei vuole concedersi. Rimasi basito, buttai lì una risata scema. Non potevo credere che un uomo, un poeta, la pensasse così. Eppure. Un giorno andai a Parigi a vedere la retrospettiva su Giacometti al Pompidou. Alloggiavo in una specie di hotel a ore, economico, sporchissimo, ma chiamai la Vorpsi e pranzammo assieme nei pressi del Beaubourg. Mi presentò suo marito, un uomo altissimo e muscoloso che si occupava di moda.

Parlammo per molto tempo di borse, ma ogni riferimento aveva connotazioni artistiche: la borsa degli strumenti per la scultura di Giacometti, la borsa di chi abita alla Rive Gauche, la borsa perfetta per una scrittrice. Ornela Vorpsi disse che nella borsa servivano strumenti per sentire il mondo. Mi piace sempre tutto di lei, anche le sue opere pittoriche alla Hockney. Mi piace anche il suo francese.

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