Helga Schneider è una donna massiccia, come la sua scrittura, ma dotata di una grazia solida che ti fa pensare alla caparbia volontà di inventare storie in una lingua non sua: l'italiano. Rimasi molto colpito dal suo libro Il rogo di Berlino perché è un romanzo implacabile su una donna che incontra la madre dopo trent'anni e scopre che quest'ultima era stata una SS mai pentita. Agghiacciante la scena dell'armadio in cui è riposta, perfettamente conservata, l'uniforme nazista. La vecchia, con una certa compiacenza, mostra tutto a Helga e al nipotino di cinque anni, quasi per ribadire che lei rimarrà per sempre una SS. Il bello è che questo libro non racconta per niente la visita alla madre, ma l'episodio dà l'abbrivio in medias res per lanciarci con l'autrice in una Berlino spettrale, con una bambina, suo fratello e una matrigna, negli anni più terribili della storia del '900.
Quando uscì il romanzo d'esordio, nel 1995, che poi non era un esordio perché prima c'era stato un romanzo Pendragon artatamente celato dalle biografie adelphiane -giusto così, scelta condivisibile - lessi una bella recensione fatta da Giuseppe Culicchia per Tuttolibri. Mi fiondai in libreria a Ferrara ad acquistarlo. Lessi con l'avidità di chi vuole saperne di più, sempre di più, e tra i capitoli alternati ricorrevano i nomi di Goebbels, Hitler, e a me venivano in mente immagini di repertorio e il film Germania Anno Zero di Rossellini. Seppi che l'autrice abitava a Bologna e siccome stavo andando in giro per l'Italia a intervistare scrittori stranieri con una lingua madre diversa dall'italiano, arrivai da lei bello tranquillo con quei registratorini di un tempo. Quei registratorini con la cassetta e il microfono per registrare. Avete presente no? Si chiamavano walkman, e si inseriva la musicassetta per ascoltare o registrare. Helga abita all'interno di una galleria, e se anche lì vicino ci passano giornalmente centinaia di treni, io ricordo solo il cinguettio di qualche storno, la finestra aperta, e questa signora di origine tedesca con gli occhiali, una folta capigliatura arancione e le sue parole. Era giugno del 2001. Era da poco uscito il suo secondo libro Lasciami andare madre e mi diceva: «In me c'è l'idea di raccontare una storia che non sia uno sfogo sulla vita e sul dolore che getto addosso agli altri. Devo cercare di fare riflettere, di commuovere, di emozionare, la storia deve lasciare qualcosa ai lettori. La mia vorrebbe essere, nello stesso tempo, una lezione di storia e una lezione di vita scaturiti da un'esperienza personale. Nel mio caso vorrei far trasparire come le ideologie false, ingannevoli, brutali, ad esempio il nazismo, possano fare sgorgare anche una storia familiare, filiale. La mia, così drammatica e così protratta nel tempo. Ho 63 anni ma vivo ancora questa non-storia tra me e una madre che non ho mai avuto. Ho ancora voglia di madre, ne soffro ancora. Ne ho sofferto per tutta la vita e ormai, dopo l'ultima visita, ho capito che è tutto perduto: non c'è più nulla da recuperare. Nello stesso tempo ho sempre avuto un'altra madre, una SS nazista mai pentita, e ce l'ho ancora».
Sbam! C'è tutto lì, in quelle parole nelle quali si evince la necessità di raccontare le aberranti controindicazioni di un regime, di una guerra, di una folle idea di dominio, e ciò che tutto questo produce sui presunti nemici ma anche nella popolazione che ha sostenuto questo sistema, questo regime. Helga Schneider non l'ha sfangata, ma è fuggita da tutto questo nel 1963 ed è arrivata in Italia. Ha lavorato in un piccolo lavasecco solo dopo che la Cavazza Spa, per la quale lavorava, era fallita. Helga traduceva per questa azienda. Quindi, come mi ha detto più volte, per sbarcare il lunario bisogna adeguarsi a tutto. Intanto scriveva. Me la immagino tra un lavoro e l'altro, la famiglia, gli impegni, cercare una stanza tutta per sé e scrivere, scrivere. Ricordare e inventare. Raymond Carver scriveva nell'abitacolo di un'auto scassata dentro a un garage. Lei chissà.
Un giorno sono andato a prenderla alla stazione di Ferrara perché dovevamo andare assieme verso il Delta del Po a fare presentazioni. Mi disse che da piccola le fecero incontrare il Führer in persona, nel suo bunker, perché le scolaresche di Berlino sistematicamente dovevano fargli visita. Ingenuamente le dissi: «Com'era?». Helga mi ha sempre detto che lo ricorda malconcio, acciaccato, ma lo sguardo era ancora pungente. La Schneider aveva utilizzato esattamente questo termine: pungente. E gli occhi erano blu. Non azzurri. Blu. I bambini erano stati preparati per la visita. Lei stessa, in quegli anni, prima dell'incontro era stata sottoposta a raggi al quarzo per darle un colorito roseo. Erano inammissibili bambini smunti. E poi la musica e le parole del Führer. «Per me era un vecchietto», dice. «Sembrava un vecchietto malconcio». Diverse volte mi ha raccontato di questa musica classica che usciva dalle casse sparse un po' ovunque, anche tra le rovine, là in città. E la voce inesorabile di Hitler che usciva dagli altoparlanti. Tutto questo me lo raccontava a Ostellato, in un bellissimo agriturismo immerso tra gli alberi. Un'altra volta sono andato a prenderla a Modena. Dovevamo fare un incontro in occasione della «Giornata della Memoria». È vero che in questo controverso anniversario riesumano sempre quei due o tre autori o studiosi, ma non era il suo caso perché la Schneider usa la letteratura per raccontare la storia, ma usa anche la storia dei drammi quotidiani durante il nazismo per fare letteratura e in questo percorso è unica. Non è l'esperta. La sua è vita. Quella volta di Modena ci presentarono in una balera che all'occorrenza diventava un luogo istituzionale per riunioni di giunta e di consiglio. In quell'occasione mi aveva detto: «Non ho pietà perché ho davanti a me i lettori. I tempi sono cambiati. Già è un miracolo che ci siano ancora persone che leggono. Io ho rispetto per un lettore modernissimo. Io voglio avere una scrittura veloce che inchiodi al mio testo. Per questo ci vuole velocità, ritmo, sintesi. Sintesi ma non freddezza. Voglio una sinteticità piena di calore e drammaticità. Sono lontana dal minimalismo, ma vorrei che il lettore andasse avanti velocemente nel leggere. Ho il coraggio di togliere e non amo i libri prolissi. Per quanto riguarda i racconti, ho scritto Porta di Brandeburgo: sono racconti che non mi paiono brutti. Ogni racconto non è più lungo di quattro pagine e li ho scritti dopo Il rogo di Berlino. Scrivo da una vita, ma solo con Adelphi ho avuto la possibilità di dimostrare di essere una scrittrice. Il primo libro era autobiografico ma c'era dentro anche letteratura, non era solo una descrizione di eventi vissuti. Perciò ho voluto dimostrare a me stessa di essere capace di scrivere anche racconti totalmente inventati».
Quando leggo i suoi libri mi vengono sempre in mente le fiabe dei fratelli Grimm. Qualcosa tra Hansel e Gretel e Pollicino. Qualcosa di iniziatico, esiziale. Quando la incontro mi viene in mente un fossile, un ammonite.
Se potesse esistere il fossile di un dramma storico, lei ne sarebbe la raffigurazione. Un fossile ancora intatto, perfettamente conservato. Qualcosa che non si riesce a spiegare a parole, ma che la letteratura può raccontare, come nel suo caso, con ostinata precisione.
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