Oggi, 22 aprile, Indro Montanelli avrebbe compiuto 111 anni. «No, compie 11 anni. Gli amici non muoiono mai».
Montanelli morì nel 2001, erano i giorni feroci del G8 di Genova. E in effetti è difficile dimenticarlo, non solo per i giornalisti, non solo per i suoi lettori, figuriamoci per gli amici. «Gli ho giurato che avrei fatto di tutto per non farlo dimenticare. E ogni occasione è buona. Oggi sono 111 anni dalla nascita, tre 1 per un Numero Uno. Coincidenza perfetta per parlare di lui, no?».
Giancarlo Aneri, fortunatissimo manager-imprenditore nel mondo del vino, ramo Prosecco e Amarone di altissimo posizionamento, da Legnago (Verona) alle tavole dei grandi del mondo, una passione fin da piccolo per il bere bene e il leggere meglio, non vede l'ora di riparlare di lui.
Giornalista ad honorem ma soprattutto amico di giornalisti («Io prima sono un lettore di giornali, poi un venditore di vini»), consultatore compulsivo di quotidiani («Fino a sette testate al giorno, lungo tutto l'arco costituzionale, da Repubblica al Giornale»), Aneri nel 1995 fondò il prestigioso e danaroso premio «È giornalismo», ideato con Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Un campione del marketing e tre maestri della scrittura. «Li leggevo così spesso e mi piacevano così tanto, che feci di tutto per conoscerli. E quando siamo entrati in confidenza, ho chiesto loro se ci stavano a presiedere la giuria di un premio per il buon giornalismo. E mi dissero di sì. Quando mi metto in mente una cosa...».
Quando si mise in mente di conoscere Montanelli?
«Primissimi anni Novanta. Lo conobbi a una cena, e da quella sera non l'ho più mollato. Ci vedevamo tutte le settimane, pranzavamo insieme, chiacchieravamo di mille cose, di lui avevo letto anche le virgole, sapeva che non bluffavo, e stava bene con me».
Che tipo era?
«Che tipo è? Una persona molto riflessiva, non proprio un tipo gioioso, sopratutto negli ultimi anni, anche solitario. Io al contrario sono esuberante. Mi diceva: Mi dài l'entusiasmo che io non ho. Viveva per il suo lavoro. Curioso di tutto, non si tirava indietro su niente ed era rispettoso di chiunque».
È famoso per le staffilate...
«Beh, sì. Se doveva dirti una cosa, te le diceva. Facevamo spesso vacanze insieme. Un'estate eravamo a casa sua, a Montemarcello, sopra Bocca di Magra. Lui era con Marisa Rivolta, la sua compagna in quegli anni, e una sera, a cena, dice a mia figlia, che avrà avuto 15 anni: Non sarà facile per te con i maschi. Sei troppo alta e troppo bella. E a mio figlio: Tu farai fatica a trovare i tuoi spazi, hai un padre troppo rompicoglioni».
Era famoso anche per le sue sfuriate.
«A chi lo dice... Era appena nata la Voce, 1994. Siamo a Montecatini, alla sera aveva un incontro al Teatro Verdi. Al mattino si sveglia, gli portano una copia del giornale e vede che senza dirgli nulla avevano messo in prima pagina un fotomontaggio di Cuccia con i denti da vampiro. Cominciò a inveire... era inavvicinabile... Del resto, quella pagina gli costò l'amicizia con Cuccia: non volle mai più parlargli».
Perché se ne andò dal Giornale e fondò la Voce? Fu davvero solo un fatto politico? L'indipendenza, la schiena dritta, quelle cose lì...
«Mah... Mettiamoci dentro che aveva anche voglia di fare qualcosa di nuovo. era da vent'anni al Giornale, e uno come lui alla lunga si stufa. Aggiungiamoci che c'erano delle frizioni personali con Berlusconi, e poi, certo, aggiungiamo il fatto politico della discesa in campo del Cavaliere...».
Perché la Voce fallì?
«Perché invece di fare un quotidiano con lo stesso spirito del Giornale ne fece un altro, spostato troppo al centro, a volte persino guardando a Sinistra... E il suo pubblico non lo seguì».
Il suo difetto più grande?
«Incontentabile. Un anno andiamo in vacanza a Punta Ala. Prenoto l'albergo. Dopo due giorni arrivo anch'io e gli chiedo: Allora, Indro: ti piace?. Mi risponde: No, sono tutti vecchi».
Cosa c'è di strano?
«Il più vecchio aveva 65 anni. E lui 82».
Il suo maggior pregio?
«Giornalisticamente, il dono della sintesi. Sapeva dire in 50 righe quello che agli altri servivano due pagine. Poi era colto. Comunque, se Biagi era imbattibile nelle inchieste televisive e Bocca nell'analisi politica, Indro lo era nella qualità della scrittura».
E dal punto di vista umano?
«Credeva in ciò che faceva. Quando fondò la Voce, e sono sicuro la stessa cosa accadde quando s'inventò il Giornale, prima del progetto economico-giornalistico, c'era l'idea di offrire un giornale libero ai lettori. E attenzione. Non ai suoi lettori, ma agli italiani. Quando stava aprendo la Voce mi disse: Ma lo capiranno che lo faccio per loro?. Io gli dicevo di sì, ma dentro mi veniva da piangere perché sapevo che la risposta era no».
E il Corriere?
«Quando Indro ruppe col Giornale Paolo Mieli gli chiese di tornare al Corriere, lo so perché c'ero anch'io quel giorno. Gli disse: Tu fai il direttore, e io faccio il condirettore. Ma Montanelli disse no».
E il Giornale?
«Anche dopo che se ne andò, continuò a parlarne con nostalgia. Il Giornale fu l'inizio della sua libertà, e questa cosa non l'ha mai scordata».
Montanelli come è ricordato oggi?
«Non come merita. In fondo, rimane ancora molto divisivo. Indro non ha mai amato Scalfari, e Scalfari non ha mai amato lui. Questo è noto. Diciamo che quella parte politica ancora oggi fa fatica a digerire Indro. Lui piaceva alla borghesia illuminata, non ai post Sessantottini... era un liberale, ma conservatore. Figurati: ha sempre detto che avrebbe votato un partito monarchico... In più mettici l'invidia e la gelosia di molti giornalisti, e capisci quanto sia difficile il personaggio, e poi...».
Stava per dire un'altra cosa.
«Che persino coloro che non lo hanno mai amato, anche se non lo ammettono pubblicamente, si sono dovuti confrontare con lui. Perché era il più bravo. Perché è il giornalismo».
Cos'è il giornalismo?
«Il mezzo che permette di portare la cultura nelle case degli italiani. Se una persona legge tutti i giorni un quotidiano ha maggiori potenzialità intellettive, lavorative e espressive. I giornali ti insegnano a leggere, a scrivere, a parlare».
Ci sono anche i tg.
«Che ti spiegano una notizia in un minuto. Per capire devi leggere i giornali per un'ora»
Ci sono gli online.
«Per aggiornarsi, non per approfondire».
Ci sono i social.
«Lasci stare. Sono il secondo virus che gira per il mondo, dopo il Coronavirus».
I giornali di carta sono in crisi. Come se ne esce?
«Due strade. La prima: la politica non deve avere paura dei giornali, ma capire che fanno crescere culturalmente il Paese. E quindi aiutarli».
Finanziamenti pubblici?!
«Sì, in proporzione alle copie vendute».
Seconda strada?
«La devono percorrere gli editori, i quali devono capire che se un giornale ha cento giornalisti, lo salvi se ne assumi altri venti, non tagliandone 50. Un quotidiano è appetibile se ricco e originale. Altrimenti il lettore preferisce il tg. O i social».
Glielo diceva Montanelli?
«No, ma so che la pensa così».
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