Un sogno d'amore siberiano per sfuggire al comunismo

Andreï Makine racconta la voglia di una vita nuova e povera, ai confini del mondo ma libera da Stalin

Un sogno d'amore siberiano per sfuggire al comunismo

La taiga ha la quieta ferocia di una apparizione divina. Giugno 1952. Un gruppo di soldati sovietici insegue un evaso. L'evaso, scopriamo più tardi, è una donna. Una tungusa dalla «dura bellezza»: «occhi a mandorla, zigomi alti da asiatica, la bocca stretta in una piega di silenzio». Quando scopriamo che si chiama Elkan, figlia «del popolo autoctono dei Negidali», siamo già alla fine del mondo, siamo già al di là delle rovine della Storia, della macelleria dell'odio. Pavel Gartsev, a quel punto, soldato immerso nello stalinismo, sbalzato dall'acciaio della Seconda guerra, uomo integrale che sa che «il dolore è fatto per rivelare l'uomo» e che «volevo capire cosa si nascondesse dietro i giochi, al tempo stesso brutali e beffardi, della Storia», ha già fatto la scelta, lì, tra la taiga e la vendetta, tra l'obbedienza e il nitore dell'abbandono, lì nella «decantazione suprema del silenzio e della luce». Pavel sceglie la fuga che incenerisce la cometa sovietica e il suo marchingegno fatto di delazioni, ambiguità, soprusi. Il pianeta sovietico assassina l'individuo: l'amore è frantumato dalla scaltrezza Pavel sta con una che offre la sua carne selvatica, con brio, all'imbecille superiore i legami hanno senso solo se corrispondono ai criteri canaglia dettati dall'ideologia. «Che fare di quell'animale umano astuto, cinico, sempre insoddisfatto e la cui esistenza non era molto diversa dal brulichio bellicoso degli insetti?».

Pavel trova la risposta nel brusco fascino di Elkan. «Non mi era mai successo di essere unito a qualcuno da un legame così trasparente. Lei e io non eravamo altro che semplici testimoni di una rivelazione notturna: il discreto avvento di un mondo ignoto». Con lei, Pavel, ormai disertore, va ad abitare alle antar, nel mare di Ochotsk, sopra il Giappone, a uno sputo di ghiaccio dalla Siberia, rocce simili alle unghie di un angelo dannato, nell'isola di Belicij, a cauterizzare nel gelo il dolore, a eternare tra povertà («Non avrei mai creduto che l'uomo avesse bisogno di così poco») e fermezza l'amore, in quel luogo al di là della cronologia umana, fuori dal tempo, fuori da ogni orientamento ideologico e fisico (lì «esiste un'anomalia magnetica. L'ago della bussola ruota continuamente, quindi non può mai indicare correttamente il Nord»).

Così, senza finzioni romantiche, con una scrittura tenace, incisa sull'avorio, con L'arcipelago di una vita (uscito in Francia nel 2016, edito quest'anno da La Nave di Teseo, pagg. 234, euro 20), Andreï Makine scrive il romanzo che disintegra lo stalinismo, l'afrore collettivista. Per farlo gli bastano due che si amano e soffrono su uno scudo di terra, tra i lamenti delle balene e la rumba dei lupi, nell'allunaggio della semplicità: «quell'isola ospitava due destini che si opponevano a tutto ciò cui aspiravano gli umani».

Makine, 60 anni, nato nella Russia siberiana, dal 1987 in Francia dopo richiesta di asilo politico, tra i massimi narratori di oggi, costruisce un romanzo dal meccanismo «conradiano», fin dall'incipit («In quell'istante della mia giovinezza, il verbo vivere ha cambiato senso»), che rievoca le atmosfere de La linea d'ombra e di Lord Jim, fin dal gioco a intarsi: il narratore, infatti specie di Marlow sovietico raccoglie la lunga confessione di Pavel nella taiga, landa irreale e vertiginosa che pare un glaciale Sinai. Affascinato dalla storia di questo ostinato amore capace di recidere ogni legame con l'umanità, il narratore, diversi decenni dopo, «nell'agosto del 2003», si mette alla ricerca di Pavel. «Mi ci sono voluti molti anni per capire: no, a essere folle era la nostra vita! Deformata da un odio irriducibile e dalla violenza diventata arte di vivere, impantanata nelle bugie pietose e nell'oscena verità delle guerre. Non erano i due fuggiaschi bensì l'umanità stessa a perdersi in un'evasione suicida».

Gli altri modelli di Makine celati nel muschio di un romanzo leggibile e per nulla scontato sono I cosacchi di Lev Tolstoj (il rapporto con l'altro, con un altro mondo possibile, ormai impossibile da percorrere per l'uomo occidentale, frastornato dalla frustrazione) e soprattutto Dersu Uzala di Vladimir Arsen'ev.

Questa specie di Dersu Uzala postsovietico, però, non dona pacifismi o conciliazioni. L'unico modo per tornare uomini è fuggire l'umanità; il vero modo per modellare la Storia è costruirsi un nido nel luogo più inospitale del pianeta, e incistarsi lì, con una donna straniera. La fuga di Pavel e Elkan accade nel 1953. Quando muore Stalin e «i cancelli dei campi di prigionia si erano dischiusi». Tra i prigionieri conficcati in Siberia c'è anche Varlam Salamov, lo scrittore dei micidiali Racconti della Kolyma. Era in Siberia dal 1937. «L'immensa maggioranza dei detenuti capisce che in fin dei conti si può vivere senza carne, senza zucchero, senza abiti, senza scarpe ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore. Tutto viene a nudo e l'ultimo denudamento è tremendo», scrive Salamov a Boris Pasternak. Lo stesso anno in cui Pavel, nella finzione ordita da Makine, si ritira in un'isola all'estremità del mondo abitato, Salamov, sempre più recluso nell'isolamento delle proprie ossessioni, va a Mosca a trovare Pasternak. Aveva una venerazione per quel poeta estraneo agli tsunami della Storia, che aveva scritto, «Quando ama, un poeta/ è un Dio smanioso che si innamora/ e il caos di nuovo sbuca alla luce/ come nei tempi dei fossili».

Pare l'epitaffio inciso sulla storia d'amore radicale, inaccettabile, tra Pavel e la tungusa. Un amore abbacinante, che lascia a bocca aperta, che ha vinto lo stalinismo, che ha tramutato il comunismo in un tramonto idiota.

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