Sotto le "Foglie d'erba" c'è un libro sacro e carnale

Il poeta è l'officiante di un rito antico e moderno. Dalle vette della mistica alle passioni più umane

Sotto le "Foglie d'erba" c'è un libro sacro e carnale

Chi è davvero Walt Whitman e perché leggerlo è una esperienza così vivificante e travolgente ancora oggi, e probabilmente lo sarà sempre di più nel futuro? Mi sono posto la domanda di fronte alla nuova edizione di Foglie d'erba curata con generoso impegno e utile chiarezza da Mario Corona per «I Meridiani» di Mondadori (pagg. CLXXXVI-1658, euro 80).

Whitman è davvero «l'archetipo della modernità nelle Americhe, in Europa e infine nel resto del mondo», come scrive il curatore del volume, ma il Novecento non l'ha ancora del tutto metabolizzato, e il nuovo secolo appena iniziato è lì per continuare a nutrirsi della sua voce potente e misteriosa. Whitman è l'autore di un solo libro-vita, cresciuto a dismisura dalla prima edizione del 1855 sino a quella detta «del letto di morte» del 1892, anno del decesso del poeta. Sacro è per Whitman il rapporto tra Anima e Corpo, che sono una cosa sola, e che si esprimono in un canto «che in concordia perfetta risponde al suolo della Terra, agli alberi,/ ai venti, alle onde tumultuose»: così dichiara sin dal frontespizio dell'edizione di Filadelfia del 1891-92. Chi legge le sue pagine sente che in esse vibra la forza dello spirito e dei sensi al massimo grado. E inizia un viaggio attraverso l'umano, l'ego, la libertà, il lavoro, la democrazia, l'amicizia, l'eros, e attraverso il non umano: il rifulgere delle albe, lo spuntare di fiori dai rami e dell'erba dalle zolle, il fragore «rauco-sdegnoso» del mare e delle maree, avvertendo confusamente come i due piani, lungi dal contrapporsi, si integrano in un disegno vitale e cosmico di spaventosa portata.

Ecco lo scandalo, ecco il mistero: «Walt Whitman, un kosmos, di Manhattan figlio,/ turbolento, carnale, sensuale, che mangia, beve e procrea/ (...) Attraverso di me voci proibite,/ voci di sessi e lussurie, voci velate e io sollevo il velo,/ voci indecenti che io rendo libere e trasfigurate». Così nel Canto di me stesso, il più dirompente ed emblematico dei poemi contenuti in Foglie d'erba. Walt Whitman racchiude in sé molte persone, molte figure, molti sogni, molti pianeti, satelliti e soli. Uno dei suoi lettori e traduttori più illustri, Jorge Luis Borges, lo descrive come una creatura biforme: il modesto giornalista di Long Island, che qualche amico avrà salutato in fretta sui marciapiedi di Manhattan, e la sua proiezione sognata, «un uomo di avventura e di amore, insolente, animoso, spensierato, viandante di tutta l'America». Emerson, che fu il primo dei suoi sostenitori, aveva sintetizzato questa impressione vedendo in Foglie d'erba un misto di Bhagavad Gita e New York Herald. Giornalista vagabondo, spesso disoccupato, che ha una casa propria per la prima volta a 65 anni, Whitman è anche lettore di libri sacri di tutte le tradizioni, conoscitore dei mistici Sufi e dei sapienti Indù sino a diventare in proprio autore di un volume che ha l'ambizione e la misura e l'afflato di una Bibbia, di un Corano sboccati e carnali, deliranti e profetici, attestazioni che Dio è nell'io di ciascun uomo e di qualunque fiore che nasce, che tutto è divino, la copula e gli appetiti della carne come lo spirito, la vita, la sua istantaneità e la sua eternità. Al lamento sulle sofferenze e le brutture che ogni umana esistenza comporta, ecco la risposta, splendida e paradossale, su cosa c'è di bene in tutto questo: «Che tu sei qui - che esiste la vita, l'identità,/ che la poderosa commedia va avanti, e tu puoi contribuirvi/ con un tuo verso».

Whitman è il celebrante di un rito poetico antico e nuovissimo. La sua tecnica dell'enumerazione, con versi che si prolungano come quando inspirano e espirano polmoni possenti, è di stampo omerico. Man mano poi, compaiono forme brevi, non più epiche, ma liriche, di straziante tenerezza. Quest'uomo che canta nelle poesie di Calamus l'attrazione omosessuale con tanta baldanza e innocenza, è lo stesso che celebra il Presidente Lincoln con la bellissima trenodia di Quando i lillà fiorirono l'ultima volta nel cortile di casa e con il celeberrimo inno di O Capitano! Mio Capitano!, lo stesso che celebra la democrazia come la forma di governo più vicina alla natura, come una conquista perennemente in fieri, ancora da portare a compimento. Quest'uomo che ha sentito in sé «brame e nequizie», che si è chiesto chi è lui per condannare un malfattore o una comune prostituta, si fa banditore di un nuovo culto e in Passaggio per l'India, dà al viaggio un connotato grandiosamente simbolico, invitando l'anima a levar l'ancora, togliere la gomena, spiegare le vele e salpare per le acque più profonde: «O gioia audace ma sicura! Non sono tutti questi mari di Dio? Sempre più al largo!».

La poesia, per Whitman, non può essere una snervata prova intellettuale, o «produzione di qualcosa di raffinato», e neppure descrizione di grandi passioni: il suo primo compito è,

attingendo al fondo di «energia originale e inesauribile», infondere un senso religioso della vita. A lui, a quest'uomo biforme, anzi plurimo, a questo uomo-cosmo, è riuscito il miracolo. Che noi dobbiamo far continuare.

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