Bene, apro una parentesi per questo nuovo romanzo di Cristiano Cavina intitolato La parola papà (Bompiani) perché è la storia che racchiude tutte le storie raccontate fin qui dall'autore. Chiusa parentesi. Cavina ci ha abituato a ragazzini che sfrecciano in bicicletta per Casola Valsenio e costruiscono archi di legno, ci ha fatto conoscere la dura legge del calcio sui campetti secchi della Romagna, ci ha descritto quanto può essere tosto frequentare una scuola dove poi si va a lavorare in fabbrica e la sapienza del pizzaiolo sotto padrone. Storie pervase da incanto e affabulazione, tra mamme senza marito, nonni un po' ingombranti, adolescenti senza padre, amici, uomini, donne e avventure epiche di paese.
Ne La parola papà c'è ancora tutto questo, ma in una luce diversa: il protagonista di tutte le storie è cresciuto, ha tre figli, qualche convivenza finita male, una serie di delusioni che si porta sul groppone e pesano, orco se pesano. Ha tirato il bidone a diverse donne, qualcuno non c'è più, altri arriveranno. Si direbbe un romanzo famigliare, ma non c'entra niente con la Saga dei Florio, o con gli ultimi romanzi alla moda, perché Cavina ambienta la saga tra case popolari, alloggi precari, carcere, discariche dove i ragazzi vanno a ubriacarsi. Siamo più vicini alle scorribande quotidiani di Lessico famigliare della Ginzburg e al Libro degli abbracci di Galeano, che a tutto il resto. È un romanzo Cavina-style al cento per cento. Mentre lo si legge verrebbe da dire: «Vabbé, senti Cristiano, stai raccontando i fatti tuoi!» ma poi riflettendo meglio non è così, perché se è vero che l'autore racconta di uno scrittore con prole, diverse vittorie e sconfitte alle spalle e il vizio cronico di essere una testa di minchia, è anche vero che in La parola papà c'è stile da vendere e uno sguardo sul mondo che fa di questo romanzo qualcosa di più di un'autofiction, o almeno qualcosa di diverso. Se fossi uno che scrive come si deve dovrei dire che oltre alle avventure picaresche e a volte scabrose di questi piccoli emarginati di provincia, c'è una scrittura molto interessante che si fa notare per l'uso sapiente dell'ellissi, quale figura retorica reiterata, e una complessa composizione di insieme, anch'essa ellittica nella forma.
Ma poi mi annoio e mi sovvengono tutte le volte in cui io e Cavina ci siamo visti in giro per l'Italia per una ragione o per un'altra. Quella volta a Ferrara in cui si presentò a luglio con la felpa e il cappuccio. Eravamo in una specie di galleria con l'Upim di fianco e la puzza di fritto del fast food poco distante. Dovevamo leggere qualcosa, eravamo annebbiati da non so cosa, smascellavamo roba per poco pubblico. Cavina: zaino sempre in spalla. Quell'altra volta a Soliera con la felpa e il cappuccio e lo zainetto sempre in spalla. Quella volta a Mantova con la, e il, e lo zainetto sempre in. L'autore sembra in perenne partenza verso chissà quale meta, con quella faccia un po' antica da Banda Bassotti, il piercing al sopracciglio sinistro. Sai quei tipi che si fanno la barba ma mentre radono sta già ricrescendo? Ecco, una faccia così. Occhio vispo. Cavina vede tutto, capisce tutto e lo rielabora. Penso che il suo sia un perpetuo fluire di immagini e parole da trasformare perennemente in qualcosa che somiglia a un romanzo.
Vaccaboia, una dote e una condanna. Nel libro nuovo lo dice che la passione per la lettura lo ha trasformato. Nel romanzo lo dice che la sua mania di raccontare storie l'ha salvato e messo in difficoltà parecchie volte. Specialmente quando racconta mezze verità per togliersi d'impiccio. C'ho due aneddoti su Cavina. Uno è quello nel quale a un incontro col figlio di John Fante che suggeriva di non leggere Stephen King, Cavina alzò la mano chiedendo il perché e alla risposta poco convincente del figlio di Fante l'autore romagnolo, suscitando le ire del figlio di Fante, disse che invece avrebbe continuato a leggere King perché Stand by me per lui era stato importante e non avrebbe abbandonato per nulla al mondo l'autore di Portland.
Altro aneddoto su Cavina: un giorno ci invitarono in un posto in cui ci avevano offerto l'alloggio in hotel, ma lui insistette nel voler andare a dormire sul divano di una coppia d'amici perché voleva fare risparmiare le spese all'associazione. Tanto per dire il tipo. Cavina e la sua felpa con cappuccio. Cavina col suo zainetto pieno di roba. Cavina sempre pronto per partire e tornare a Casola. Un giorno me l'ero ripromesso: prendo su famiglia e vado a mangiare alla pizzeria Il Farro dove l'autore fa le pizze. Ma poi nel 2018 ha chiuso e amen. Niente pizza. C'è la parte folcloristica, che l'autore ama assecondare, ed è quella che lo descrive come il bravo ragazzo di paese, pizzaiolo un po' candido, fondamentalmente buontempone e astuto. Poi c'è un altro lato dell'autore, complesso, ricco di affabulazioni e soluzioni narrative azzardate e sagaci. Quale sarà la sua vera essenza? Sintetizzando si può dire che convivono in lui l'esordio di Alla grande (MarcosYMarcos), del lontano 2003 e Ottanta rose mezz'ora (MarcosYMarcos), romanzo d'amore del 2019 troppo sottovalutato a causa di un infelice comunicato stampa che metteva a fuoco la storia di una prostituta quando, invece, si trattava di uno struggente dramma con risvolti esistenziali. Il nuovo romanzo compendia e mette in equilibrio sia la vena folk che quella intimista in un perfetto equilibrio perché come c'è scritto in La parola papà: «Le storie come i guanti; anche se li rovesci, funzionano. Devi giusto invertirli. Pochi notano le cuciture.» Qui i rovesciamenti dell'autore sono un azzardo ben riuscito.
Del nuovo romanzo non si possono svelare troppi particolari. Posso solo dire che l'ho letto tutto in un giorno; volevo capire bene dove andava a parare l'autore e così ho rubato tempo alle incombenze per finirlo in fretta. Si parla di un viaggio. Babba prende i figli e se li porta via. Per farli stare buoni dice che stanno andando in piscina ma Teo, il più grande, capisce subito che si farà dell'altro. Iniziano i pensieri, come quando si è in auto e si passa da un argomento all'altro, si fanno riepiloghi, sintesi, si passa in rassegna parte della propria vita. Lo facciamo un po' tutti no? L'autore fa così, ma come lettori, all'inizio, capiamo solo che ci sono capitoli alternati, che poi non sono capitoli ma spazi tra un pensiero e un altro. Cavina ci ha abituati a pagine poetiche e a situazioni più dure, ci ha abituato alla grazia e a circostanze più aspre. Fa così anche in La parola papà, dove ogni asprezza ha una sua lealtà, mentre ogni situazione idilliaca cela una minaccia. A saperla lunga la vicenda di Babba e dei suoi figli somiglia molto alla storia di Enea che porta in salvo il padre Anchise mentre Troia brucia. Sono i figli a portare in spalla Babba, tra mille difficoltà, parole pensate e mai dette.
Poi c'è dell'altro: le impronte dei merli sulla neve, umiltà, perle di saggezza, interruzioni di gravidanza, sbreghi, sceicchi, ergastolani, roba forte.
La parola papà non sembra neanche un libro; ha tutta l'aria di essere una dichiarazione d'amore tardiva, un memoir, un romanzo on the road, un affresco sul presente, un romanzo di famiglia, qualcosa di onesto, una storia schietta. Autentica. Cavina è proprio trac. Però boh, se dicessi che è bravo sarei banale. Direi urgente. Cristiano Cavina ha una scrittura urgente. Ecco, ciao.
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