Tutti creativi, nessun creatore. L'arte oggi secondo Jean Clair

Escono in Francia le memorie di uno dei massimi esperti del contemporaneo: l'amore per l'Italia, le posizioni conservatrici, il disgusto per la nostra epoca

Tutti creativi, nessun creatore. L'arte  oggi secondo Jean Clair

Nel 1956, il quindicenne Jean Clair si ritrovò «in colonia» sul lago di Garda, le vacanze di chi non poteva permettersi la villeggiatura. Erano gente umile i Clair, la campagna prima e poi la periferia parigina come domicilio, il dialetto e poi l'argot proletario come lingua, la madre a fare «i mestieri nelle case», il padre «i lavori di fatica».

Il ragazzo però a scuola si era rivelato un portento e quell'estate, dunque, «alunno meritevole», Jean si stava annoiando a bordo lago: le «colonie marine», una via di mezzo fra il collegio e la caserma, non brillavano quanto ad allegria. La gita a Venezia che ne avrebbe sancito la fine, si era rivelata il solo e unico motivo di interesse in grado di bruciare la monotonia del soggiorno.All'ultimo momento però la gita saltò e il ragazzo sentì montargli alla testa quel «sangue contadino e sangue proletario» che comunque ribolliva nel suo cervello di studente modello: «Ero furioso. Ero venuto per vedere Venezia e avrei visto Venezia» scrive Jean Clair in La part de l'Ange. Journal 2012-2015 (Gallimard, pagg.410, euro 26), miscellanea affascinante di critica d'arte e memoria, riflessioni esistenziali e letterarie. È un racconto che vale la pena di seguire, perché letto oggi, ciò che avvenne allora sembra incredibile.Uscito all'alba dalla colonia, mentre tutti dormono, i sorveglianti come i suoi compagni, in autostop Jean arriva alle dieci del mattino nella Serenissima, ma a mezzogiorno, allertati da una telefonata, dei sorridenti carabinieri lo hanno già preso in custodia. Poiché non è maggiorenne, lo portano alla Casa dei Minorenni, quella che oggi adesso è l'Accademia delle Belle Arti e prima era stato l'Ospedale degli Incurabili, un progetto del Sansovino, tanto per capirci... Viene messo in una piccola stanza, gli vengono date una dozzina di coperte per fare un materasso e «tre enormi panini», perché a digiuno dal mattino. Il giorno dopo, l'appuntamento è al consolato di Francia, ma poiché la giornata è bella, e non c'è fretta, i carabinieri lo portano in motoscafo, a velocità di crociera, a fare un tour della città: dalle Fondamenta degli Incurabili, che sono alle Zattere, arrivano alla Punta della Dogana, entrano nel Canale Grande e lo ripercorrono a ritroso sino alla Stazione ferroviaria, rientrano poi dal Canale della Giudecca e depositano il ragazzo a Palazzo Clary, sede del consolato, ovvero a poche centinaia di metri da dove sono partiti.

Di fronte a un comportamento così squisito, il console non è da meno: secondo la legge italiana, gli spiega, puoi restare a Venezia ancora per 48 ore. Visto che alla Casa dei Minorenni hai già un letto, perché non ne approfitti? Di suo aggiunge cinquecento lire per le piccole spese, dei buoni-pasto per la mensa dei Ferrovieri e il biglietto di treno per Parigi. Nessuna ramanzina e una stretta di mano concludono l'incontro. L'Italia degli anni '50 era anche questa cosa qui, come del resto l'Europa, senza scomodare l'Erasmus, Schengen e la globalizzazione...L'amore di Jean Clair per il nostro Paese data da allora: crescendo, quella facciata cinquecentesca degli Incurabili che era stata il tetto italiano dei suoi quindici anni gli farà meglio capire la poesia dei dipinti di De Chirico, e con essa l'idea di un Paese più ascrivibile al segno di Saturno e delle ombre che a quello del Sole, delle spiagge e delle nudità dei corpi, l'idea di una sorta di eterno ritorno in cui la rivoluzione artistica si iscrive nell'etimologia stessa della parola, revolvere che vuol dire tornare a, per poi ripartire. Se non si comprende la bellezza metafisica del paesaggio italiano, osserva, o la malinconia di una bella giornata d'estate, si ha dell'Italia un concetto sbagliato, che è poi quello che hanno gran parte dei francesi, per grossolanità o per miopia critico-ideologica. Si deve proprio a Clair, e alla sua mostra Les Realismes entre Révolution et Reaction 12919-1939, allestita ormai quasi quarant'anni fa, se il '900 artistico italiano riprese lentamente il suo posto al sole. È «l'altra pittura» quella che Clair ha messo in evidenza, e che è l'esatto opposto del formalismo e dell'astrazione uscite criticamente vincenti, una pittura che «spettinando la guerra e descrivendo la potenza tecnica del nuovo mondo rivelava che ciò che dominava quest'ultimo erano le forme dell'inquietudine, del sogno, del rimpianto, della disperazione.

Quanti Dormiente, quante Donne al sole, quante nudità sognanti e assenti, la mano sinistra al mento e lo sguardo perso, in queste immagini messe al servizio della Rivoluzione fascista».Scrive ancora Clair, a proposito di Mario Sironi, il principe della cosiddetta Pittura del Regime: «Il suo era un problema di estetica, non di propaganda: come unire la muscolatura antica e quasi romana degli operai, degli sterratori, dei contadini nudi sino alla cintola, con la nuova silhouette delle automobili in acciaio e dai colori chiassosi?». Come era stato possibile insomma che «quest'arte del sogno del fantasticare, del riposo doloroso e del mistero in piena luce, avesse potuto svilupparsi sotto un regime arbitrario, muscoloso, tonitruante, senza però restarne sottomesso?».La part de l'ange non racconta solo questo amore per l'Italia, il suo popolo, la sua arte.

È anche l'elegia di un mondo scomparso: «Abbattere le frontiere, sopprimere i limiti, strappare le siepi sino alla radice significa desacralizzare uno spazio di cui la casa colonica, per la sua forma come per la sua funzione, era il cuore. Vuol dire consegnare insensibilmente il mondo al caos. È scucire un vestito che nel tempo era stato sapientemente tessuto, per mettere un corpo a nudo prima di consegnarlo ai bruti».Andiamo incontro, dice ancora Clair nel su libro, alla sparizione dei libri e al disprezzo della storia, alla dispersione delle idee e alla dissipazione dei sentimenti, a un tempo senza tempo, un futuro senza avvenire, l'akedia degli antichi Greci, l'accidia malattia morale dell'anima, la noia di chi non ha più niente da fare e nessun dio in cui credere. È anche per questo che insegniamo la bruttezza, delle abitazioni, degli abiti, delle opere d'arte: ci rassicura perché ci convince che non c'è più niente per cui valga la pena attardarsi, «niente da conservare o da rimpiangere e che dunque bisogna avanzare, avanzare sempre penando e sudando - quello che viene definito il Progresso. La bellezza fa nascere una nostalgia, un dolore a volte.

La bruttezza ci trascina altrove, senza pensarci, senza dubbio verso la morte».Anche la rivoluzione elettronica, nota Clair, non è altro che «l'ultimo episodio della lunga storia della distruzione delle biblioteche... Il disastro che si srotola sotto i nostri occhi è tanto più profondo perché avviene nell'entusiasmo di chi nutre con orgoglio questi nuovi autodafé per lasciare spazio alle potenze illimitate dei Big Data. Più nulla dunque da dare, prestare o scambiare, nulla di cui ci si possa ricordare. Niente più storia, né eredità».Già conservatore del Centre Pompidou, direttore del Museo Picasso, direttore della Biennale di Venezia del Centenario, ideatore di grandi mostre (sulla malinconia, sul delitto e sul castigo...) Clair ha sull'arte moderna lo sguardo disincantato di chi ha visto tutto: «Non potevo immaginare che i musei, invece di essere un rifugio al riparo dal mondo moderno, significassero invece per me trovarmi nel cuore di un laboratorio dove meglio si leggevano i segni annuncianti il crollo della nostra cultura. Nel silenzio dei quadri, lontano dai tumulti del secolo, l'osservazione delle opere di cui avevo la cura, mi informava nel modo migliore sul lento processo di decomposizione di cui il nostro mondo è diventato preda. La storia dell'arte detta moderna era la storia della nostra propria fine. Invece di essere la storia di una liberazione, l'epopea dello spirito libero dal dovere di servire, la gloria dell'Uomo illuminato dai Lumi, non era altro che l'ultimo episodio di un nuova iconoclastia, allineando, di decennio in decennio, i sintomi più evidenti di un'auto-adorazione dell'uomo da parte dell'uomo, che si concludeva nella spazzatura o nell'imbecillità».

Siamo entrati così nell'epoca delle basse opere, divertissement non più di creatori romantici, ma di creativi contemporanei, «di quelli che, diceva Mathurin Régnier, pisciano nelle acquasantiere perché si parli di loro. Piscio, dunque penso». Incontinenza dell'io. Prostata delle civiltà stanche. Catastrofe.

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