Parrà strano, ma a fine '800, giornalisticamente, l'intervista letteraria non esisteva. Non si diceva neppure «intervista», ma colloquio o, al più, all'inglese, «interview». Ed è così che chiama i suoi incontri con i più grandi scrittori italiani del tempo il giovane Ugo Ojetti (1871-1946) quando, nel 1894, si mette a girare il Paese come un avventuriero, tra carrozze, treni e barche, Alla scoperta dei letterati, come titolò il suo primo vero libro: una serie di ritratti, fra la critica e il reportage, dei maggiori romanzieri, commediografi e poeti suoi contemporanei. Il libro uscì nel 1895, ebbe poche e complicate ristampe, ma ora eccolo di nuovo: lo riedita la casa editrice Historica (pagg. 280, euro 18; a cura di Michele Bortolini).
Ojetti ha appena ventiquattro anni - collabora con La Tribuna - quando si pone l'obiettivo di capire, e far capire ai lettori, cosa sta succedendo nella piccola, frazionata, confusa è già invidiosa Repubblica delle lettere italiana. E non solo ci riesce, ma con la sua inchiesta, di cui si parlò molto, comincia una carriera critico-giornalistica che lo porterà nel giro di pochi anni ad essere inviato del Corriere della sera e poi a fondare riviste, pubblicare romanzi e raccolte di articoli, firmare per La Fiera Letteraria, organizzare mostre e eventi culturali e soprattutto - per via del suo appoggio al fascismo - dirigere tra il 1926 e il 1927 lo stesso Corriere. Oltre scrivere le celebri Cose viste e i discussi Taccuini (1914-1943), usciti postumi da Sansoni nel '54 e poi spariti (saranno però ripubblicati quest'anno da Aragno).
Comunque Ojetti fece per primo, e con molta più fatica, quello che oggi fanno molti giornalisti culturali. Cioè andare a intervistare i grandi scrittori, tirando fuori ritratti originali e bozzetti di maniera. Solo che all'epoca c'erano Carducci, Fogazzaro, Verga, Capuana, la Serao. Oggi abbiamo Carofiglio, Cognetti e la Murgia. A ogni epoca, i suoi campioni.
È così. Cambiano i personaggi, ma restano identici gli argomenti di discussione: la morte del romanzo (o del teatro), le nuove correnti letterarie, il ruolo della critica, le piccole gelosie e gli scambi di favore tra colleghi... Tutto uguale, ieri come oggi.
Attenzione. L'anno è il 1894. Politicamente il momento è favorevolissimo al socialismo (tutti o quasi gli scrittori si dichiarano socialisti), mentre dal punto di vista letterario il naturalismo è in declino (ma Émile Zola è citato in ogni interview) e in Italia fiorisce la corrente detta «misticismo» o «neo-misticismo», di cui oggi neppure si ricordano i manuali scolastici. Lo ha lanciato Matilde Serao, insieme a Fogazzaro. Ma sono pochi a crederci. Come sono pochi a credere alla scomparsa del romanzo (secondo i più, sarebbe prevalso sul teatro e le altre forme letterarie, mentre la poesia sarebbe presto risultata residuale). Si parla molto di lingua (quella aulica, falsa, e quelle dialettali, che soffocano la «vera» lingua italiana). E in genere, al di là di un ottimismo di facciata, si percepisce un certo cinismo e tanta disillusione verso la letteratura nazionale. Per il vicentino Paolo Lioy «tutto è mediocre»: «I baldi poeti che un giorno si figuravano cavalcanti insolentemente tra la folla bassa fissando gli occhi aperti nel sole ora vanno in velocipede. Quello è un simbolo: è il trionfo della mediocrità... Tutti possono tentare l'arte e tutti la tentano, e deludono i buoni e illudono sé stessi. E il pubblico lo vede e lentamente se ne distacca» (e per quanto riguarda le scrittrici, è anche peggio: «Il loro numero crescente è un sintomo di decadenza: è la mediocrità che conquista l'arte e la soffoca»). Enrico Buti si chiede: «Che cosa ci hanno dato questi cinquant'anni ultimi? I manzoniani e i veristi. I primi sono già morti, ed è bene lasciarli morire in santa pace; i secondi non furono che piccoli imitatori dei naturalisti francesi; ma mentre questi con Zola assurgevano a una intensità simbolica potentissima, i nostri non facevano che le novelle paesane o rusticane». Per Edmondo De Amicis, preoccupato dal disimpegno sociale degli scrittori, «la letteratura italiana oggi è povera, poverissima... I letterati si ritirano in eremi, lontani dal romore del mondo, e il mondo non li sa e non li vede». Per Capuana invece il problema di un'Italia che legge poco (già allora!) sono i giornali. Quelli politici «si astengono dal parlare di letteratura come si asterrebbero da un crimine» e quelli letterari «fanno l'articoletto o amichevole o maligno all'uscir del libro, e poi... zitti! Mai uno studio largo, complesso, intero, comparato». Sintetico, e definitivo, Arturo Graf: «Una letteratura di sonnambuli».
E - val la pena ricordarlo - nel 1894, anno delle interviste, D'Annunzio aveva appena stampato il Trionfo della morte, Fogazzaro annuncia a Ojetti il Piccolo mondo antico, De Roberto gli parla del suo prossimo libro, I vicerè, Capuana gli anticipa Il marchese di Roccaverdina e Pascoli passava dalle Myricae ai primi Poemetti. Se si era pessimisti allora, che cosa bisognerebbe pensare oggi?
Per il resto, Carducci nella sua Bologna ha una vita quotidiana metodica: passeggia, gioca a briscolon, legge Orazio, non ama la musica, se non Wagner. Fogazzaro - che si dichiara «cattolico rigido, severo, convinto» - è in piena fase paranormale: si occupa di spiritismo, ipnotismo, suggestione. I milanesi si dividono i caffè cittadini: i giovani «intellettuali» come il Praga e lo Zuccoli vanno al Savini; i «vecchi» come Verga, il Boito, i Treves e il De Roberto, si trovano da Cova. D'Annunzio vive a Francavilla al mare in una «villetta bianca e quietissima» con uno studio dalle finestre ampie e «cortinaggi altissimi di damasco rosso», pieno di «stoffe rare, armi antiche, libri preziosi» che è l'anticamera, minuscola, di quello che sarà il Vittoriale. Il ribelle Marco Praga, che odia Ibsen, segue soltanto una corrente: quella del denaro («Ho scritto L'Erede per una ragione sola. Mi occorrevano dodicimila lire. E L'Erede fedelmente me le ha date»). Federico de Roberto a trent'anni porta già il monocolo.
Il diffidente Enrico Butti - per il quale il giornalismo «è un implacabile nemico della letteratura» - si scaglia contro la critica teatrale («è fatta da gente ottusa, incolta, acida, che scrive per guadagnarsi il pane, e se lo guadagna a dispetto dell'arte e del buonsenso»). E Capuana si lamenta degli esigui guadagni: «Treves che è tra i più ricchi editori dà al massimo duemila lire per un grosso romanzo di un autore già ben noto...». Nulla cambia sotto il sole della letteratura.
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