Antonio Lodetti
Il suo jazz di New Orleans aveva «scaldato» l'atmosfera ovunque partendo dai bordelli della gloriosa Storyville per arrivare perfino a Buckingham Palace. Per questo Jelly Roll Morton (1890-1941)- pianista, magnaccia, strepitoso raconteur e tnte altre cose ancora - aveva scritto sul suo biglietto da visita «inventore del jazz». Le sparava davvero grosse, Jelly Roll, ma giocava le sue storie sempre su un fondo di verità, e in realtà nessuno all'epoca suonava il pianoforte come lui: ragtime, boogie, «stride», suoni particolari e «strani». Per questo Alan Lomax (insieme al padre John, uno dei più competenti etnomusicologi di tutti i tempi)gli ha dedicato il gustoso volume Mister Jelly Roll (Quodlibet, pagg.364, euro 25)sottotitolato Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans «Inventore del jazz», che è un vero e proprio libro di avventure.
Cantava cose tipo: «Mister Jelly Roll alla sua vecchia tastiera è assolutamente regale». E nel 1938, quando registrava i suoi brani come documento per la Biblioteca del Congresso, era particolarmente carico da buon istrione qual'era. Il vestito da 100 dollari gli calzava a pennello; l'orologio da tasca e gli anelli erano d'oro e il suo famoso diamante, incastonato in oro su un incisivo, brillava come un lume a gas. Per non parlare delle sue giarrettiere, anch'esse tempestate di diamanti. Era un gagà dell'epoca e Lomax descrive così quel momento. «Il suo sorriso di diamante illuminò la sala oscura, quando cominciò a evocare i suoi felpati ritmi da osteria dal pianoforte a coda. Lo senti questo riff?, disse. Ora lo chiamano Swing, ma è solo una piccola cosa che ho inventato un sacco di tempo fa. Già, credo che quel riff siam tanto vecchio che ormai gli sarà cresciuta la barba. Qualunque cosa suonino oggi quei ragazzi, non fanno che suonare del Jelly Roll». Jelly Roll suonava e si raccontava a ruota libera al registratore, narrando la storia (secondo la sua immaginifica versione) dell'hot jazz, nato ai primi del '900 all'incrocio tra il limaccioso Mississippi e il Golfo Azzurro... Jelly ricorda il ragtime, il boogie, tutti i musicisti, detti «i ragazzi», che avevano le loro «mammine», ovvero «puttane di quart'ordine», che lavoravano anche come cameriere nelle case dei ricchi. A 14 anni Ferdinand LaMothe (questo il suo vero nome, perché era di origine francese, ma lo cambiò in Morton perché non si capisse la vera origine) si adattava a fare umili mestieri e a lavorare presso un bottaio. Ma all'epoca - secondo il suo ego ipertrofico - era già considerato uno dei migliori pianisti della città e aveva capito che suonando nei locali malfamati avrebbe guadagnato di più che facendo un lavoro normale.
Nel 1904 vagava già di locale in locale e di città in città suonando brani come il blues Alabama Bound, entrato nella storia come un classico proveniente dalla tradizione. Ma Jelly Roll raccontava di averlo scritto lui stesso. «Quando giunsi a Mobile, nel 1905, misi per iscritto Alabama Bound, che piacque molto a tutti i miei amici», scrive. E per amici intende storici pianisti quali Thomas «Baby» Grice e Frazier Davis o Porter King, per il quale scrisse un altro pezzo, divenuto un traditional, come King Porter Stomp. Di quest'utlimo pezzo ha raccontato, giocando con la storia: «Per quanto mi riguarda, non so cosa stia a significare il temnine stomp. Voleva solo dire che chi ascoltava pestava i piedi. Comunque, quel brano è divenuto di gran lunga il preferito di tutte le formazioni hot del mondo, se sono capaci di eseguirlo. Ancora oggi ha portato alla fama molte orchestre importanti, e altri brani di successo utilizzano elementi di King Porter Stomp per riuscire meglio. Nel 1905 scrissi anche You Can Have It, I Don't Want It, che divenne il primo successo del signor Clarence Williams. Lui se ne assunse la paternità, benchè fossi stato proprio io a insegnargli come si suona». I suoi racconti sulla vita nel ghetto di New Orleans sono impressionanti; nei locali baldorie pazzesche e risse con pistole, coltelli e tanta violenza. E poi le mitiche band viaggianti (che aprirono la strada al jazz), cui si univano gruppi di agguerriti picchiatori per scontrarsi con le bande avversarie. Ogni giorno - tra una nota e l'altra - si rischiava la ghirba. Eppure lì Jelly Roll era un idolo. E non solo lì, ché divenne una stella anche a Chicago (altra città del divertimento e del vizio) e in tutto il Paese, e che alla fine degli anni Venti, alla guida della Red Hot Pepper Band, cominciò a veder girare soldi veri con tournée in tutti i locali più quotati del Midwest. E poi c'erano i dischi che vendevano a profusione, perché era entrato nella prestigiosa scuderia Victor, che li pubblicizzava come quelli della «band Hot Numero Uno».
Insomma, era una star di prima grandezza e incideva canzone dopo canzone senza mai sbagliare un colpo. Ma in fondo in fondo artisticamente era un puro; era uno dei pionieri del jazz e voleva che questo fosse suonato nell'autentico stile di New Orleans, e fu proprio questo che paradossalmente segnò la sua fine.
Il mondo cambiava troppo rapidamente per Jelly Roll; la Rca rilevò la Victor e negli anni Trenta impazzava ovunque la Swing Era. Il pianista provò a seguire i tempi, ad ampliare la sua band e a buttarsi sullo swing, ma con scarsi risultati, e nel frattempo il boom che lo aveva portato in alto era clamorosamente passato. Si trovò solo contro tutti; le grandi organizzazioni musicali, i gangster che gestivano le principali sale da ballo minacciavano addirittura di ammazzarlo se avesse cercato (come probabilmente faceva) di portare via i musicisti di New Orleans per tornare alla vecchia musica. Persino i ghetti neri lo abbandonarono, attratti dal blues e dai bluesmen, che portavano avanti uno stile più adatto ai loro tormenti.
Ma Jelly Roll continuava a dire incessantemente: «Io sono il maestro; ragazzi, tutto quello che suonate e Jelly Roll», e non riuscì mai a capire - da vero uomo del popolo - se a portargli via il successo verso Broadway fu la storia o una maledizione voodoo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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